05/11/07

Anche in Italia c’è il rischio di razzismo!!

Non capisco l’acidità dell’articolo di Vasile sull’Unità nei confronti della collega Spinelli ( …..da un attico di una lontana città del Nord Europa, Barbara Spinelli… ….rudezza per rudezza, vogliamo anche ricordare che una sinistra astratta e salottiera non comprese, e a volte avversò…..). Se pure ella ha usato qualche “parola di troppo” in riferimento ad un articolo scritto dall’Unità sulla tragica morte romana dei giorni scorsi (le critiche che la Spinelli rivolge al Giornale mi paiono più che vere critiche raccomandazioni), comunque subito dopo fà una attenta e compiuta analisi sul popolo Rom (perseguitato da più di un millennio), sul comportamento xenofobo e gli obblighi imposti dalla Cee e disattesi dallo stato Rumeno che personalmente condivido.

Rischi di una nuova ondata xenofoba interessano purtroppo anche il nostro paese e su questo in più articoli proprio l’Unità è tornata nei giorni successivi.

Non è possibile che seri professionisti “democratici” si scontrarsi anche su questo. Simili atteggiamenti non aiutano certo il lettore a comprendere e in simili casi l’obiettivo unico deve essere che i lettori comprendano e comprendano bene al di là dei “pruriti”.

Riporto di seguito i due articoli:

“Da La Stampa ( http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/hrubrica.asp?ID_blog=40 ) del 04/11/07 L'Europa e il tabù dei Rom di Barbara Spinelli

La risposta delle autorità pubbliche al massacro di Giovanna Reggiani è stata ferma, netta: non c’è spazio in Italia per chi vive derubando, violando, uccidendo. C’è qualcosa di sacro nel bisogno di sicurezza sempre più acutamente sentito dagli italiani, così come c’è qualcosa di sacro nell’ospitalità, nell’apertura al diverso, nella circolazione libera dentro l’Unione. Quest’antinomia permane ma comincia a esser vissuta come un ostacolo, anziché come una convivenza di norme contrastanti (di nòmos) che vivifica l’Europa pur essendo ardua. È un’antinomia che educa a vivere con due imperativi: l’apertura delle porte ma anche la loro chiusura se necessario. Molti chiedono negli ultimi giorni di «interrompere i flussi migratori»: la collera suscitata dal crimine di Tor di Quinto ha rotto un argine, anche nel nuovo Partito democratico, e d’un tratto sembra che solo un imperativo conti: le porte chiuse. Su un quotidiano di sinistra, l’Unità, sono apparse parole strane. Si è parlato, a proposito del quartiere del delitto, di «tutta un’umanità brutta sporca e cattiva»; si è parlato di «città italiane che funzionano come miele per le mosche di uno sciame incontrollato che viene dall’Est Europa». L’umanità sporca, lo sciame di mosche: è vero, un tabù cade a sinistra e tanti se ne felicitano, constatando che finalmente il buonismo è stato smesso e che la sinistra non va più alla ricerca dei motivi sociali della delinquenza ma si concentra sulla repressione e le vittime. Gli imperativi dell’apertura s’appannano, la tensione vivificante fra norme diverse svanisce, entriamo in un mondo che promette certezze monolitiche: basta interrompere i flussi, e il male scompare. Spesso il capro espiatorio nasce così, con questa riduzione a uno del molteplice, del complesso. Spesso nascono così i pogrom, come quello scatenato venerdì sera contro i romeni nel quartiere romano di Tor Bella Monaca: dall’Ottocento hanno questo nome, in Europa, le spedizioni punitive contro i diversi. Anche le ideologie nascono così, fantasticando scorciatoie che risolvono tutto subito. Oggi è la destra a sognare utopie simili, e la sinistra riformatrice s’accoda sperando di ricavare guadagni elettorali. La distruzione dei campi rom è parte di quest’ideologia. Un’ideologia irrealistica perché l’immigrazione non sarà fermata e l’Europa ne ha bisogno. La Spagna sembra esserne consapevole e non a caso è diventata il Paese con il più alto numero di immigrati e progetti d’integrazione. La ripresa della natalità iberica è dovuta a questo. Chi parla dell’immigrazione come di male evitabile sbaglia due volte: perché non è evitabile, e perché in sé non è un male. Se non si vuole che sia un male occorre governarlo bene, il che vuol dire: non solo reprimendo, ma reinventando politiche in Italia e nell’Unione. Perché europei sono i dilemmi ed europeo sarà l’inizio della soluzione. Perché il tabù di cui tanto si discute non è quello indicato (buonismo, tolleranza). Il vero tabù, che impedisce con i suoi interdetti di vedere e dire la realtà, è un altro: è la questione Rom ed è l’inerzia con cui la si affronta nel dialogo con l’Est da dove vengono i cosiddetti nomadi. Fuggiti dall’India nell’anno 1000, giunti in Europa nel Trecento, i Rom assieme ai Sinti sono chiamati spregiativamente zingari, parlano una lingua derivata dal sanscrito, in genere sono cristiani (la parola Rom, come Adamo, significa «persona». I più vivono in Romania). Siamo in emergenza, è vero. Ma non è solo emergenza sicurezza. C’è emergenza europea sui diritti dell’uomo e delle minoranze. C’è una doppia inerzia: nelle strategie d’integrazione e nei rapporti tra Stati europei. Quest’emergenza è acuta a Est, da quando è finito il comunismo: in Romania è specialmente vistosa ma la malattia s’estende a Slovacchia, Ungheria, Repubblica ceca, Kosovo. Al concetto unificatore di classe è succeduto dopo l’89 il senso d’appartenenza alle etnie, e vecchie passioni come xenofobia e razzismo, non superate ma addormentate durante il comunismo, sono riapparse: i più invisi sono i Rom - oltre agli ungheresi che non vivono in Ungheria - e il loro migrare a Ovest è intrecciato a questa ostilità dentro i Paesi dell’Est e fra diversi emigrati dell’Est. È quello che i rappresentanti Rom in Europa denunciano ultimamente con forza (sono circa 8 milioni, su 15 nel mondo). La Romania, in particolare, è accusata di attuare un politica sistematica di espulsione di Rom, da quando è entrata nell’Unione all’inizio del 2007. Il ministro dell’Interno, Amato ha evocato a settembre un «vero e proprio esodo di nomadi dalla Romania», e di esodo in effetti si tratta: ma esodo forzato, nell’indifferenza europea. Dicono i rappresentanti Rom che i membri della comunità in Romania son cacciati dagli alloggi, dai lavori, dalle scuole, e per questo preferiscono le topaie italiane. Il ministro Ferrero, responsabile della Solidarietà sociale, dice il vero quando nega che l’esodo sia essenzialmente economico: la Romania non è più così povera, sono xenofobia e razzismo a colpire oggi i Rom. Queste cose andrebbero ricordate a Bucarest, cosa che hanno tentato di fare Amato e Ferrero in un recente incontro con il ministro romeno dell’Interno, David. Ferrero ha cercato lumi presso il Forum europeo dei Rom e tentato di mettere alle strette David. Dall’incontro è nata la convocazione di un tavolo permanente di negoziato: presto si riunirà a Bucarest. Proprio perché è nell’Unione, la Romania deve rispondere di quel che fa con i propri Rom (2 milioni, secondo stime ufficiose). Discutere di queste cose con Bucarest e altri governi dell’Est è urgente. Un patto è stato infatti rotto, che pure era assai chiaro. Ai tempi dei negoziati d’adesione, i candidati si erano impegnati a rispettare i criteri di Copenhagen, che non riguardano solo l’economia ma le «istituzioni capaci di garantire democrazia, primato del diritto, diritti dell’uomo, rispetto delle minoranze e loro protezione». Ingenti fondi son devoluti da anni a tale scopo (il programma europeo Phare, cui si aggiungono finanziamenti della Fondazione Soros, della Banca Mondiale) intesi a frenare la «discriminazione fondata sulla razza e l’origine etnica». È accaduto tuttavia che una volta entrati, numerosi governi dell’Est hanno fatto marcia indietro (il regime Kaczynski in Polonia è stato un esempio). Ed è così che si è riaccesa l’ostilità verso i Rom: questa etnia perseguitata da un millennio e decimata nei campi nazisti. Paragonarli a uno sciame di mosche non è anodino. Significa che l’Italia (per come parla o chiede azioni) comincia ad assomigliare a quegli europei dell’Est che stanno arretrando e riproponendo, ancora una volta nel continente, il dramma Rom. Certo urge controllare meglio i flussi migratori: ma non si può farlo accusando intere etnie (Rom, Romeni, Albanesi) per il delitto di alcuni. Non si può governare alcunché se non si prende distanza dalla strategia di cui Bucarest è oggi sospettata. La caduta dei tabù comporta anche il formarsi di idee completamente false. Con disinvoltura i Rom son descritti come non integrabili, nomadi, dediti al furto. I dati smentiscono queste nozioni. In Italia la comunità Rom è composta in stragrande maggioranza di sedentari, non di nomadi. E tentativi molto validi di integrazione hanno dimostrato che quest’ultima può riuscire. Ci sono iniziative della Chiesa: le ha spiegate sul Corriere don Virginio Colmegna, presidente della Casa della Carità a Milano. E ci sono iniziative pubbliche preziose: a Pisa, Napoli, Venezia. Pisa è esemplare perché i risultati sono eccezionali: nei campi vivevano 700 Rom, dieci-dodici anni fa. Solo due bambini erano scolarizzati. Il Comune si è incaricato di trovar loro lavoro e alloggi, scegliendo un mediatore per negoziare con i vicini. Appena emancipati, i Rom uscivano dal programma d’assistenza e i fondi servivano a integrare altri loro connazionali. Nel frattempo, si spingevano le famiglie a scolarizzare i figli. In dieci anni, 670 Rom su 700 sono stati inseriti, e tutti i bambini vanno a scuola. Certo la comunità in Italia è divisa: alcuni chiedono più campi, mentre i più vogliono superarli proprio perché il nomadismo è meno diffuso di quel che si dice: il 90 per cento dei Rom (140 mila nel 2005, in parte italiani) non sono camminanti bensì - da decenni - sedentari.

Per riuscire in simili operazioni bisogna abbandonare l’utopia, privilegiando fatti ed esperienze. Ambedue confermano che l’integrazione resta indispensabile, che chiuder le porte non basta, che è necessario far luce sui pericoli che corre non solo la sicurezza ma la democrazia. Dice Franz Kafka: «Bisognerà pure che nel campo dei dormienti qualcuno attizzi il fuoco nella notte». Questo invito a far luce sui veri tabù vale per i dormienti dell’Est e per l’Europa. Vale per i Rom (il loro faro non dovrebbe esser la figura della vittima ma la donna Rom che s’è sdraiata sull’asfalto davanti a un autobus per denunciare il Rom assassino di Giovanna Reggiani) e vale per la destra come per la sinistra italiana.

Dall’Unità ( http://www.unita.it/view.asp?IDcontent=70333 ) del 05/11/07 di Vincenzo Vasile

Dove guarda la Spinelli

Da un attico di una lontana città del Nord Europa, Barbara Spinelli su La Stampa accusa l’Unità di avere scritto «parole strane» sul martirio di Giovanna Reggiani. Avere scritto che nella misera baraccopoli dove è maturato il delitto si aggira «tutta un’umanità brutta sporca e cattiva» (citazione di un film di Ettore Scola che negli anni Settanta svelava senza ipocrisie la disperazione e la brutalità delle condizioni di vita in certe baraccopoli romane); avere scritto di «città italiane che funzionano come miele per le mosche di uno sciame incontrollato che viene dall’Est Europa» (immagine che ci sembrava persino tenue rispetto alla formidabile e «incontrollata» pressione di immigrati «comunitari» e anche di delinquenza che l’ingresso della Romania nella Ue da un anno a questa parte ha determinato).Come i nostri lettori ricordano, il giorno dell’assassinio di Giovanna Reggiani abbiamo voluto porre con forza la questione di misure urgenti ed efficaci per dare risposta alla stringente domanda di sicurezza della gente comune, per scongiurare il pericolo che essa venga incanalata e cavalcata da xenofobi e irresponsabili: isolare e cacciare via i violenti, per tutelare sia la popolazione in allarme, sia la parte operosa e onesta delle comunità straniere. Un modo, l’unico modo per sedare i focolai di odio e impedire che divampino. Così estrapolate, invece, le nostre due frasi conducono Spinelli a una conclusione sbalorditiva: esse rivelerebbero l’intenzione della sinistra di accodarsi alla destra razzista «sperando di ricavare guadagni elettorali», e sarebbero addirittura criminogene: «Spesso il capro espiatorio nasce così (…) spesso nascono così i pogrom, come quello scatenato venerdì sera contro i romeni di Tor Bella Monaca». Le aggressioni verbali che intanto la destra ha lanciato in questi giorni contro il governo centrale e l’amministrazione comunale di Roma, che si sono mossi sulla linea che questo giornale ha cercato di stimolare, forse basterebbero per rispondere a un processo alle intenzioni che si basa su una banalità che delude gli attenti e affezionati lettori di Barbara Spinelli: avremmo rotto, scrive, il nostro tabù «buonista». Si potrebbe aggiungere che abbiamo semplicemente scritto le cose come stanno. Attenendoci a un principio di realtà che consideriamo essenziale sia per la buona politica, sia per il buon giornalismo. E cioè, per esempio, abbiamo scritto, e ripetiamo che il particolare «privilegio» di impunità di cui godono piccoli, medi e grandi racket importati e fioriti nella disperazione delle favelas italiane ha prodotto una evidente e chiara statistica: viene proprio da quei «nuovi europei» il 75 per cento dei reati della cosiddetta microcriminalità nella capitale (e si parla solo di quelli denunciati e solo dei colpevoli identificati!). Ma, rudezza per rudezza, vogliamo anche ricordare che una sinistra astratta e salottiera non comprese, e a volte avversò, negli anni passati la battaglia che, al fianco di magistrati e poliziotti valorosi, una sinistra più concreta e un giornale poco «buonista» come l’Unità hanno condotto contro le grandi forme di criminalità organizzata. Dagli uomini e dalle donne di acuta cultura ci aspetteremmo che al cospetto dell’emergenza della violenza quotidiana non chiudessero gli occhi e non perseguissero lo stesso, identico errore.

Pubblicato il: 05.11.07”

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