22/04/08

Così ho detto a mia figlia che sono malato di cancro"

Dalla scoperta del male alla battaglia per contrastarlo
di CORRADO SANNUCCI

(http://www.repubblica.it/2008/04/sezioni/spettacoli_e_cultura/libro-sannucci/libro-sannucci/libro-sannucci.html )

HO svegliato mia figlia e poi siamo rimasti insieme sul letto a farci qualche coccola. "Papà, ma tu adesso non parti più!". Ho visto nei suoi occhi verdi una consapevolezza che andava molto oltre la circostanza che io non viaggiassi più per lavoro. La sua era una constatazione che conteneva, implicita, una domanda. Ho deciso di risponderle. Le spiego che adesso ho un'infezione al sangue, una specie di raffreddore ai globuli rossi.

"Non hai mai sentito starnutire i miei globuli rossi in questi giorni?". Le chiedo. "Non hai sentito noiosi "eccì" che non mi fanno dormire la notte?".
Mia figlia sorride, questo inizio di spiegazione l'ha già in parte rassicurata. La mia medicina scende da questo pistoncino che ormai conosce bene. Sarà una cura lunga e noiosa, che mi impedisce di prendere l'aereo, non vogliono che salga a bordo gente che potrebbe nascondere delle bombe nei pistoncini fissati al braccio. Le parti del puzzle cominciano a combaciare. Io che non parto più, il mio elastomero che fa scattare l'allarme al controllo di sicurezza dell'aeroporto, io che la notte mi alzo continuamente perché le emazie che starnutiscono mi svegliano.
Facciamo colazione mentre mia moglie si prepara ad accompagnarci, lei a scuola, me in ospedale. Con una manciata di corn-flakes mia figlia è sazia, io non sarei placato che da un paio di etti di gorgonzola. Ma le faccio compagnia con un biscotto, ha già dovuto digerire l'infezione del padre, non vorrei che le apparisse ora come un famelico Shrek.
"Ma dimmi, preferisci quando papà è in viaggio o quando resta a casa e sta più tempo con te?".

Che domanda piena di trabocchetti mi sono inventato. Per quanto possa averla rassicurata, dev'essere chiaro nella sua testa che la mia presenza a casa è legata alla mia salute, alla possibilità che io non stia bene. Ma come risponderà? Se non avesse un'intuizione delle ragioni della mia insolita disponibilità non potrebbe preferire questi pomeriggi nei quali facciamo i compiti, ascolto i suoi esercizi di pianoforte, la accompagno alle lezioni di nuoto, perdiamo tempo a scegliere le figurine dal giornalaio? "Preferisco quando sei in viaggio!" dice con una smorfia, recitando una scena del tipo: così a casa posso fare quello che mi pare. Ma è solo una recita, appunto. Ci guardiamo negli occhi. "Risposta esatta!" le dico. "Ho vinto un premio?". "Certo. Te lo sei meritato".
Mia figlia ha capito tutto. Vuole il papà a lavorare lontano, lo vuole sano.

2.
Il 5 dicembre è una tersa giornata dell'inverno più caldo degli ultimi cento anni. Alle 15 in punto mi siedo davanti al primario del reparto oncoematologico del Santo Spirito.
Ho con me le analisi del sangue e la mente già piena di tetre premonizioni.
Ho dato uno sguardo ai valori dei globuli rossi e delle piastrine, anche a un profano è evidente che c'è un problema serio nel mio midollo.
Il primario è un uomo piccolo, più giovane di me, dai modi decisi e con una somiglianza a certi ritratti dei repubblicani, i Gracchi o i Bruti. Percepisco immediatamente che la vita non mi risparmierà alcun male e lui non mi nasconderà nulla di questo male.
Analizza i numeri che sono sui fogli ma il suo interesse è per il diagramma dell'ultima pagina, il picco monoclonale delle gammaglobuline, la fotografia rivelatrice di quello che sta accadendo dentro di me.
Non ci sono "mmmh" di dubbio, non ci sono se o ma o forse. La visione di quell'everest rosso spiega tutto. "Questo è un mieloma multiplo" mi dice con voce ferma. "Una brutta bestia".
Sono le 15.01. La mia vita precedente è distrutta. Il bombardamento di Dresda era stato più lento, anche lo tsunami si era avvicinato dando il tempo a qualcuno di arrampicarsi su un albero, il tornado Katrina era stato annunciato per televisione. Solo a Hiroshima la bomba atomica era stata più rapida di questa sentenza.

3.
C'è un breve silenzio tra di noi, il primario è consapevole dell'annuncio che mi ha dato. Per reggere il confronto con la sua fermezza anch'io tengo la schiena dritta e lo sguardo fisso su di lui. In realtà sono stordito dalle ondate di uno choc emotivo totale. Un mieloma multiplo.
Siamo a dicembre, arriverò fino a marzo? Riuscirò a sistemare la cose di famiglia in questi pochi mesi? Devo avvertire il giornale che questa sera non potrò essere all'Olimpico per Roma-Valencia. Mia moglie deve trovare un lavoro, dovrà aiutarla in questi giorni. Finisce così improvvisamente la vita, senza mai un avvertimento o un segnale di allarme? Finisce quando siamo ancora giovani?
Mia figlia è così piccola, come crescerà senza padre? Il primario interrompe il mio camminare sullo strapiombo.
"C'è una strada possibile per uscirne. Lunga e faticosa".
Ah, c'è una strada. Non lo sapevo: quando io ero ragazzo, quarant'anni fa, un mieloma era senza scampo. Non mi ero aggiornato sui progressi dell'ematologia. Ascolto il mio inflessibile Gracco, non se ne rende conto ma il mio precipitare nel baratro sta rallentando, improvvisamente mi sento aggrappato a un piccolo paracadute. "Però questa è una malattia che non ammette il pareggio. O si vince o si perde".

4.
Per la diagnosi definitiva c'è in realtà bisogno di un puntato midollare, anche se, mi dice esplicitamente il primario, che sa come dirmi le cose indicibili, non ci sono possibilità di errore.
"Vogliamo cominciare adesso o vuole aspettare o farsi visitare da un altro medico?".
"Che aspettiamo? Andiamo subito" gli rispondo bruscamente.
Se la strada è lunga e faticosa è meglio incamminarsi immediatamente.
"Sentirà dolore".
"Non importa, facciamo quello che è necessario fare".
Sono disteso su un lettino e mi immerge un ago nello sterno, ma la raccolta è laboriosa, l'osso è duro e non si riesce a tirare via niente. Proviamo allora sulla cresta iliaca, questa volta con maggiore successo. "Sente dolore", chiede più volte. "No" rispondo tranquillamente. Nulla di quel rimestare tra muscolo e osso si avvicina minimamente all'idea che ho del dolore.
Torniamo nel suo studio, non è passata mezz'ora e ho già una garza e un cerotto addosso.
"Devo dirle che lei è libero di scegliere la terapia che preferisce. Ha tutto il diritto di andarsene da qui e affidarsi a chiunque altro ritenga possa farla uscire da questa situazione e con i metodi che più la convincano".
Un poco pizzica la puntura sull'anca. Il primo fastidio percepito in una storia che finora è stata del tutto muta e nascosta. "Lei intende niente chemio ma omeopatia o somatostatina o gita a Lourdes o guaritori con la dieta?" chiedo.
"Le opzioni legittime di altri pazienti" commenta il primario in modo molto politically correct.
"No, resto qui. E voglio aghi nelle vene appena possibile. La autorizzo a ferirmi, a entrarmi nel corpo in ogni momento e modo lei ritenga necessario, a invadermi con sostanze chimiche o strumenti nelle dosi più potenti che la terapia richiede, con le ferite più profonde che le analisi impongono. Nulla mi dev'essere risparmiato. Mi tormenti, mi sgretoli, mi frantumi. Raccolga da me il siero, l'osso, il sangue. Mi nutra delle più devastanti molecole che la scienza abbia inventato. Io voglio dentro di me queste molecole e ho fiducia in questa scienza. Ma questa battaglia devo vincerla".
(Questo brano è l'inizio del primo capitolo del libro "A parte il cancro tutto bene" scritto da Corrado Sannucci, inviato di Repubblica)

(22 aprile 2008)

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