31/12/07

Augurio per l'anno nuovo

Pensierino di augurio per l’Anno nuovo (ma non so come): al Presidente della Repubblica e al governo Prodi e al Parlamento e a tutti gli altri “beneficiati” perchè guadagnino nell’anno nuovo abbastanza meno di quanto hanno guadagnato in quest’anno ormai finito e agli italiani di guadagnare un po’ di più così da apparire tutti insieme un po’ più uguali e reciprocamente più graditi. E chissà che non migliori anche l’intero paese.

Buon anno a tutti

24/12/07

Auguri

Buon Natale a quei pochi (solo per ora?) che visitano il Blog con l'augurio che il numero cresca ma soprattutto, ed è quello che conta, che cresca sempre più il numero di persone che condivide le nostre opinioni.

Per quelli che ci sono già : niente paura siamo già tanti e non solo sulla rete (che in fondo è un luogo di confronto e facile amplificazione dei nostri pensieri ma soprattutto è un luogo dove non si perdono le tracce).

Che l'anno nuovo ci porti un Prodi magari ristretto ma sempre in sella e speriamo che Mastella cambi testa o almeno Ministero (verranno un giorno tempi migliori nonostante il detto abruzzese:chi l’ha dette ch nun po’ venì lu peggio”?).

Quanto a una politica di rigore e al servizio dei cittadini semmai ci penseremo l’anno prossimo. Per quest’anno ci basta questo e in fondo sono solo piccoli desideri (come i mandarini con cenere e carbone nella calza della Befana) e facili da avverarsi.

23/12/07

Colpevoli gli intercettatori o gli intercettati?

Viene davvero in mente che siamo sulla via del non ritorno. Berlusconi offende Magistrati, dipendenti della Rai, giornali e giornalisti per cercare un’impossibile difesa (è l’unica attenuante che può essergli concessa quella appunto che permette all’imputato di tentare comunque una difesa anche se poco consona ad un parlamentare) rispetto ai fatti inoppugnabili che le intercettazioni telefoniche evidenziano (se di interesse giudiziario o meno lo stabiliranno i magistrati) e cosa accade? Non ci si preoccupa delle offese del Cavaliere né di quello che le intercettazioni lasciano supporre ma ci si preoccupa del diritto alla “privacy” come se l’onorevole Berlusconi avesse telefonato ad un familiare o ad un amico d’infanzia e non ad un alto dirigente Rai. E subito il nostro valente Ministro di grazia e Giustizia ci ripropone la “Legge Mastella sulle intercettazioni” (vedi mio articolo del 25 Maggio ) attraverso la quale noi comuni cittadini saremo liberati appunto dallo scandalo di sapere cosa fanno i nostri politici e potremo con gioia lasciare in eredità ai nostri figli l’eventuale conoscenza di loro colpe.

Come mè e senz’altro con più chiarezza esprime la sua indignazione l’articolo del Blog di Corrias Gomez Travaglio cui vi rimando ( http://voglioscendere.ilcannocchiale.it/post/1728506.html ) e che di seguito riporto

“23 dicembre 2007
Nient'altro che la verità
Non c’è più niente da fare. Ormai Berlusconi ha vinto. Dopo 15 anni di slogan falsi bombardati con gli ordigni radioattivi delle sue televisioni e della sua Rai, è riuscito a contaminare tutto il paese, tutto l’ambiente che lo circonda, compresi i politici del centrosinistra che dovrebbero opporglisi, compresi tanti intellettuali e giornalisti. Per cui, ormai, parlano e pensano (si fa per dire) quasi tutti come lui. Lo dimostrano, se ve ne fosse ancora bisogno, gli alti lai del Club degli Intoccabili – da Bertinotti a Mastella, da Franceschini a Berlusconi, per non parlare delle mosche cocchiere dalemian-veltroniane Latorre, Caldarola e Polito e dei cerchiobottisti alla Sergio Romano – contro le intercettazioni, chi le effettua e chi le pubblica.
L’altra sera, ad Annozero, ne hanno parlato due dei pochissimi intellettuali immuni da radiazioni: Franco Cordero e Antonio Tabucchi. Infatti parevano due marziani. Cordero ricorda che le intercettazioni non manipolano nulla: sono l’”autoritratto” di chi parla, nel bene e nel male. Tabucchi rammenta che i politici non sono mai intercettati: intercettati sono i malfattori con i quali parlano spesso certi politici. I quali, se non vogliono finire anch’essi indirettamente intercettati, hanno un rimedio facile facile: non parlare con malfattori e chiamare, per dire, la Comunità di sant’Egidio. Ragionamenti di puro buonsenso, che però cadono nel vuoto. Per leggere qualcosa di sensato bisogna rivolgersi a un giornalista e scrittore di origine italiana che vive in America, Alexander Stille, il quale due giorni fa ha scritto un articolo memorabile su Repubblica dal titolo Il Paese dove i potenti vanno in galera. E’ una boccata d’aria nel “mare nostrum” di cazzate e tartuferie assortite.
Dopo aver elencato una serie impressionante di potentissimi politici e vip americani finiti in galera senza batter ciglio, Stille spiega: “Alcuni imputati hanno cercato di dipingersi come vittime della stampa o dei pubblici ministeri locali di diverso orientamento politico, ma una volta emerse le prove inequivocabili dei reati commessi, sono stati abbandonati dai compagni di partito. (…) I fini politici possono essere contestabili a livello individuale, ma ciò che conta sono i fatti. Se un pubblico ministero produce prove certe di un illecito, nessuno, neppure i più stretti alleati politici dell’imputato, può permettersi di ignorarle, indipendentemente dalla fonte da cui provengono. (…) Al di là del generale consenso politico esistente negli Usa sul fatto che l’illegalità, in qualunque ambito, è inaccettabile, anche l’atteggiamento degli imputati qui in America è diverso. (…) In Italia i processi si trascinano per anni e le condanne non comportano conseguenze fino all’esaurimento di tutti i gradi di giudizio, un iter che richiede spesso più di un decennio. Se gli imputati siedono in Parlamento vi restano fino all’ultimissimo momento senza ricevere alcun invito a dimettersi. Anche dopo una condanna le conseguenze sono minime, ammorbidite da leggi ad personam o da amnistie, così che il ‘potente di turno’ al massimo trascorre qualche mese agli arresti domiciliari nella lussuosa dimora acquistata con i frutti del suo operato corrotto. E nonostante le condanne, montagne di prove e sentenze mitissime, nelle interviste questi signori si dipingono come vittime innocenti e si scagliano contro chi ha osato svelare le loro malefatte”.
Poi Stille butta un occhio desolato sul nostro sistema dell’informazione, anzi della disinformazione al servizio del potere: “La cosa forse peggiore è che in Italia gli elementi oggettivi paiono contare pochissimo rispetto alle fonti che li producono. Così come nell’attuale caso Rai-Berlusconi-Saccà - nessuno contesta la veridicità delle intercettazioni telefoniche del dirigente Rai Agostino Saccà e quasi nessuno parla del quadro agghiacciante della gestione di potere in Italia - ma vengono respinte perché vengono dalla cosiddetta ‘armata rossa della magistratura’ e perché sono state pubblicate da Repubblica. Forse l’aspetto più importante della realtà americana, portata qui ad esempio, è che negli Usa esistono delle istituzioni, come i tribunali e la stampa, che, indipendentemente dal colore politico, operano in autonomia, producendo elementi oggettivi da tenere necessariamente in considerazione, nel bene e nel male. A ragione o a torto, quando un sito web conservatore pubblicò le prove della relazione del Presidente Clinton con Monica Lewinsky, immediatamente perse importanza la fonte della rivelazione, importante era stabilirne l’autenticità. Lo stesso accadde quando un altro sito pubblicò le prove che Rudolph Giuliani aveva messo la sua amante, diventata poi sua moglie, sotto la protezione della polizia a spese dei contribuenti. Quando la veridicità dell’informazione fu confermata, Giuliani fu costretto a scusarsi e a fornire spiegazioni”.
In Italia invece devono scusarsi i magistrati e i giornalisti che scoprono una notizia vera sgradita al potere. Due esempi, tra i più recenti. Francesco Verderami è un ottimo giornalista del Corriere della Sera. Eppure l’altroieri, intervistando alcuni senatori del Partito democratico sull’intercettazione Berlusconi-Saccà e sulle intercettazioni in generale, ha scritto cose stupefacenti. Non tanto per le risposte dei senatori del Pd (il problema non è quel che Berlusconi e Saccà si dicono, ma che i giudici e la stampa l’abbiano scoperto). Bensì per le domande del giornalista. Verderami parla di “intercettazioni à la carte”, mentre basta chiedere lumi ai colleghi della giudiziaria per sapere che sono regolarmente depositate nell’avviso chiusura indagini recapitato agl’indagati Berlusconi e Saccà. Invoca il “rispetto delle regole”, sventola imprecisati “valori scritti nella Costituzione calpestati come uno zerbino”: quasi che i giornalisti – Corriere compreso – che raccontano intercettazioni pubbliche, penalmente rilevanti e di altissimo interesse politico fossero dei delinquenti.
Aggiunge che “non si era mai sentita finora un’intercettazione lanciata sui siti web e riproposta in tv e sui giornali”, dimenticando che sui siti web e sui giornali sono disponibili da due anni tutte le intercettazioni di Calciopoli; e che ogni sera in tv si ascoltano le telefonate, si leggono le mail e si mostrano i siti preferiti dei sospettati e degl’imputati dei vari delitti da copertina, nel bel mezzo delle indagini. Che su questo doppio binario sorvolino i politici, preoccupati di proteggere il Club degli Intoccabili, non stupisce. Che Bruno Vespa lacrimi per “la violazione delle garanzie e della dignità delle persone” quando le persone sono gli amici Berlusconi e Saccà, mentre se ne infischia della privacy di tanti cittadini comuni di Cogne, Garlasco e Rignano, fa parte del personaggio. Ma è strano che un collega bravo come Verderami non ribatta alcunchè al solito Polito, che nello stesso articolo elogia il “vero garantismo di Berlusconi quando Fassino e D’Alema finirono nel tritacarne”. Tutti ricordano che fu proprio il Giornale del “vero garantista Berlusconi” a pubblicare la telefonata Fassino-Consorte (“Abbiamo una banca?”) il 3 gennaio 2006, vigilia delle elezioni, sebbene fosse ancora segretissima, neppure trascritta dagli inquirenti in attesa della procedura parlamentare. Possibile che Verderami non abbia nulla da replicare all’incontinente Caldarola che invoca addirittura “un’inchiesta a Roma sulla Procura di Napoli” per scoprire “da dove sono filtrati i documenti”? Basterebbe chiedere a Giovanni Bianconi, che quei documenti ha pubblicato come tutti i migliori cronisti, per sapere che le carte non “filtrano” da alcuna Procura: sono depositate nelle mani degli avvocati. E, non essendo segrete, non solo se ne può, ma se ne deve parlare.
E’ un po’ triste vedere tanti bravi colleghi farsi afoni dinanzi a politici che straparlano, in un’osmosi tra intervistatore e intervistato che rende indistinguibili domande e risposte. Come se il giornalista dovesse limitarsi a registrare le corbellerie che ascolta, senza contestarle per ristabilire un minimo di oggettività dei fatti. La stessa sindrome ha colpito un altro fuoriclasse come Luca Telese, che sul Giornale ha intervistato il solito Polito lasciandogli dire che in Inghilterra quel che accade in Italia con le intercettazioni è ”semplicemente impensabile”. Eppure non può dimenticare che il 17 gennaio 1993, il Sunday Mirror e il Sunday People pubblicarono il testo della telefonata erotica tra Carlo d’Inghilterra e Camilla Parker abusivamente intercettata dai servizi o da 007 ingaggiati da Lady D. E che il 7 giugno scorso la Corte europea per i diritti dell’uomo ha condannato la Francia perché un tribunale aveva condannato due giornalisti per aver pubblicato in un libro le intercettazioni illegali disposte da Mitterrand su alcuni avversari politici: secondo l’Alta Corte, i giornalisti fecero benissimo a pubblicarle perché, trattandosi di politici che volontariamente si espongono al controllo della stampa e dell’opinione pubblica, il loro diritto alla riservatezza viene meno dinanzi al diritto della gente a sapere e dei giornalisti a informarla: che la notizia sia segreta o illegalmente acquisita non conta; conta solo che sia vera.
Ora, come potremo difenderci dal bavaglio che il Club degl’Intoccabili ci sta apparecchiando, se alcuni di noi collaborano con gli imbavagliatori?

Mani sporche

Dal 6 dicembre in libreria


Come prima, più di prima. Quindici anni dopo il biennio magico di Mani Pulite, l’Italia delle mani sporche ha perfezionato i metodi per rendersi più invisibile e invulnerabile. Prima sotto accusa erano i politici e il mondo industriale. Ora le parti sembrano invertite: sotto accusa sono soprattutto i magistrati.
Ecco che cosa è successo negli ultimi anni, dal 2001 al 2007. Dal governo del cavalier Berlusconi e dell’ingegner Castelli a quello del professor Prodi e del ras di Ceppaloni, Mastella.
Prima le leggi ad personam, ora le leggi ad personas, a beneficio degli intoccabili.
La musica non cambia: è tutta colpa dei magistrati. Quei pochi che resistono, combattono da soli, spesso abbandonati dallo stesso Csm, vessati dalla stampa, criticati dalle altre istituzioni.
Le leggi vergogna varate da Berlusconi (Cirami, ex Cirielli, Castelli, falso in bilancio, Gasparri sulla tv, Frattini sul conflitto d’interessi, riforma-porcata elettorale) e che ci hanno resi ridicoli al cospetto internazionale (ricordate l’Economist?), dovevano essere subito smantellate dal centro sinistra. Invece sono ancora in vigore. A quelle se ne sono aggiunte altre come l’indulto per svuotare le carceri (di nuovo piene), le intercettazioni e il bavaglio alla stampa, l’ordinamento giudiziario Mastella: tutto in barba alle promesse elettorali dell’Unione. (“Il ministro Mastella copia le riforme della Cdl”, si compiace l’on. avv. Pecorella).
Prima era necessario corrompere, ora i soldi i partiti se li danno da soli, il controllato e il controllore sono sempre la stessa persona. E mentre Gherardo Colombo lascia la magistratura e Gian Carlo Caselli viene estromesso dalla Procura antimanfia, il giudice Carnevale, grazie a una legge apposita, ritorna in Cassazione a 76 anni (ci rimarrà fino a 83), Craxi viene pienamente riabilitato, anche a sinistra, e molti di coloro che sono stati riconosciuti colpevoli ora sono in Parlamento (alcuni in Commissione Antimafia). Forse per continuare a delinquere, sicuramente per difendere chi delinque.
Ma una parte della società civile e della magistratura non ci sta. E prova a resistere. Non lasciamoli soli.
La rassegna

Autori: Gianni Barbacetto, Peter Gomez, Marco Travaglio
Titolo: Mani sporche
Pagine: 914
Prezzo: 19,60
Collana: principioattivo"


21/12/07

Veltroni contro la burocrazia

Che dire? E bravo Veltroni stavolta cc’hai pproprio azzeccato. Continua così e vedrai che ne verranno fuori delle belle ma soprattutto così diventi più comprensibile ai cittadini e perciò compreso.

Veltroni contro la burocrazia
"L'Italia ha il demone del non fare"

ROMA - "In Italia c'è il demone del non fare, si preferisce stare tranquilli e non fare guardando con sospetto chi, invece, fa", ha detto oggi il sindaco di Roma, Walter Veltroni, nel corso della presentazione del corridoio militare dell'ospedale San Giovanni di Roma.

Veltroni se la prende con la burocrazia: "Bisogna prendere a cannonate - ha proseguito - l'abitudine di questo Paese di rimandare tutto alla burocrazia, che è un elefante seduto sulla velocità del Paese".

E bacchetta il malcostume dilagante, sottolineando che "se bisogna passare per stanze e uffici per ottenere una autorizzazione, ci si può imbattere nel mascalzone: vedo riemergere ovunque fenomeni di corruzione".

Nel nostro Paese, per il leader del Pd, c'è l'idea che "la decisione è un pericolo". "Ma la corruzione - ha proseguito - nasce dalla vischiosità e dalla poca trasparenza burocratica". "Il problema non sono i cittadini ma le convenienze", ha concluso.

(19 dicembre 2007)

Non disturbare i manovratori

Riprendo e publico dal Blog di Travaglio
Non disturbare i manovratori

Di Marco travaglio
Nella scorsa legislatura ebbero grande risonanza mediatica (almeno sui giornali) gli appelli promossi e firmati da alcuni fra i nostri più prestigiosi giuristi e docenti universitari contro le leggi vergogna del governo Berlusconi e contro gli attacchi dell'allora premier all'indipendenza e all'autonomia della magistratura. Qualcuno si domanderà: che fine han fatto quei giuristi e docenti universitari ora che le leggi vergogna (dall'indulto al bavaglio di Mastella ai giornalisti su intercettazioni e atti d'indagine) le promuove il centrosinistra, ora che gli attacchi all'indipendenza e all'autonomia della magistratura li muove l'Unione all'unisono col centrodestra?
Ottima domanda. Ma la risposta è ancora meglio: gli stessi giuristi e docenti universitari, il 29 ottobre, hanno promosso e sottoscritto un appello contro l'incredibile richiesta di trasferimento del pm Luigi De Magistris da parte del cosiddetto ministro della Giustizia (se n'è occupato proprio oggi il Csm, per rinviare un'altra volta). I princìpi citati dall'appello sono gli stessi che sostenevano gli appelli anti-Berlusconi. Che cos'è cambiato? Che nessun giornale ha pubblicato l'appello. I giornali di destra pretendevano di censurare i riferimenti alla continuità col governo Berlusconi. I giornali di sinistra, evidentemente, preferiscono non disturbare il manovratore. Anzi, i manovratori. I giornali "indipendenti", anzichè esserlo dagli schieramenti, lo sono dalla verità dei fatti. Pubblico l'appello "clandestino" qui di seguito, con i nomi dei primi firmatari. Come si diceva qualche anno fa, leggete e diffondete.


Appello
La scorsa legislatura è stata connotata da forti tensioni tra potere politico e magistratura, con frequenti interferenze del primo sull’attività della seconda. Ci si attendeva, nella nuova, un radicale mutamento di rotta, in armonia con le dichiarazioni programmatiche. Si registra, invece, un’inquietante continuità di indirizzo, come denota il caso dell’inchiesta Why Not della procura di Catanzaro. Appare a dir poco sconcertante che a chiedere per ‘motivi di particolare urgenza’ il trasferimento cautelare del pubblico ministero procedente sia lo stesso guardasigilli implicato nelle indagini. E’ vero che l’iscrizione nel registro degli indagati è successiva a tale richiesta, ma è altrettanto vero che il coinvolgimento del guardasigilli nelle indagini era da tempo di pubblico dominio. Tanto meno si giustifica l’inusitato provvedimento di avocazione con cui il procuratore generale facente funzioni ha sottratto l’inchiesta al magistrato procedente, sul presupposto di un’incompatibilità per ‘interesse nel procedimento’ ai sensi dell’art. 36 c.p.p. Prudenza avrebbe voluto che, prima di adottare un provvedimento così eccezionale, si attendesse l’esito del giudizio disciplinare; in sua assenza si può rovesciare il discorso a base dell’avocazione ed ipotizzare, con almeno pari plausibilità, un ‘interesse’ del ministro a liberarsi del proprio inquirente e a precostituire cause di incompatibilità attraverso l’azione disciplinare. In questo quadro la revoca dell’avocazione e la restituzione dell’indagine al suo originario titolare sono i passi necessari perché non sia ulteriormente minata la già precaria fiducia del cittadino nell’amministrazione della giustizia e nell’uguaglianza davanti alla legge. Quanto alla circostanza che il pubblico ministero dell’inchiesta Why Not abbia pubblicamente denunciato l’illegittimità dell’avocazione e – insieme ad altri colleghi – pressioni e intimidazioni da parte di soggetti istituzionali, va senza dubbio riconosciuto che competano ai magistrati doveri di riserbo nei riguardi dei mass-media; ma è solo assicurando le condizioni per la legalità e l’autonomia delle indagini, che si può pretendere l’osservanza di quei doveri.

29 ottobre 2007

Sergio Chiarloni (università di Torino)
Mario Dogliani (università di Torino)
Paolo Ferrua (università di Torino)
Rosanna Gambini (università di Torino)
Andrea Scella (università di Udine)

2007 Missioni di pace, Napolitano: ''Non possiamo sottrarci a responsabilità''

Leggo su ADN Cronos del 21 Dicembre ( http://www.adnkronos.com/IGN/Politica/?id=1.0.1695663037 ): 2007 Missioni di pace, Napolitano: ''Non possiamo sottrarci a responsabilità''dove si dice “……… Proprio per assicurare alle missioni internazionali di pace che vedono impegnati i militari italiani il sostegno finanziario necessario, ''pur con un bilancio dello Stato gravato da un debito pubblico accumulato nei decenni passati'', Napolitano esorta a ''trovare le risorse per le nostre Forze armate''…….”

Commento: certo Presidente bisogna reperire i fondi. Cosa ne pensa di utilizzare i risparmi che la Camera, il Senato e lo stesso Quirinale saranno in grado di fare riducendo gli stipendi del personale dipendente e quelli dei parlamentari?

18/12/07

Il caso dell’ex generale della Guardia di Finanza


Ieri dopo la lettura di alcuni quotidiani e la notizia delle “dimissioni del Generale Speciale” mi era venuto in mente di scrivere qualcosa per questo fatto che a mio avviso appariva grave. Non capivo perché il Presidente della repubblica, che aveva firmato la lettera di revoca del Generale, inviatagli dal Governo accettava in qualche modo le dimissioni e le trasmetteva al Governo. Mi sembrava che quella lettera (senz’altro irriguardosa se scritta da una alta carica dell’esercito) non dovesse essere ricevuta dal presidente perché di fatto il Generale era già destituito dall’incarico e non poteva in nessun modo presentare una lettera di dimissioni. Poi nel dubbio ho deciso di prendere tempo e documentarmi ancora un po’.

Questa mattina, leggo come mio solito alcuni quotidiani e trovo l’articolo di D’Avanzo che trovo puntuale e chiarificatore all’indirizzo: http://www.repubblica.it/2007/11/sezioni/politica/speciale-caso/soldato-sleale/soldato-sleale.html ). L’articolo è così puntuale e non saprei come meglio riferirlo e così lo pubblico per intero nel mio Blog.

POLITICA

IL COMMENTO

Un soldato sleale

di GIUSEPPE D'AVANZO


CHE il generale Roberto Speciale fosse un soldato sleale, s'era avuto già modo di apprezzarlo. Che un militare che giura fedeltà alla Repubblica e all'osservanza della Costituzione potesse spingersi fino a un gesto eversivo di insubordinazione allo Stato democratico, anche il più severo dei suoi critici non avrebbe potuto immaginarlo. Invece, è accaduto, accade - ed è la vera questione da affrontare - nell'indifferenza di istituzioni distratte o intimidite, nel silenzio di una politica incapace di guardare oltre la propria mediocre convenienza del momento. Come se in questa storia non fossero in gioco le ragioni prime di una democrazia: la legittimità di un governo eletto dal Parlamento; le sue prerogative di organo costituzionale chiamato ad assolvere il compito di direzione politica del Paese. E' questa legittimità costituzionale che il generale Speciale, con la sua grottesca lettera di dimissioni, nega, rifiuta, disprezza, umilia. E' alquanto minimalista - quasi gregario - definire soltanto "irrituale" quella lettera, come capita a Romano Prodi. Assai poco convenzionale è per il Quirinale dichiarare - nei fatti - ricevibile quella missiva offensiva per il governo, per poi trasmetterla a Palazzo Chigi. L'iniziativa di Speciale è davvero soltanto irrituale e il destinatario della lettera può essere correttamente il capo dello Stato? E' difficile sostenerlo e pare grave accettarlo senza batter ciglio.
Il generale infedele sostiene di avere conquistato "il diritto" ad essere comandante della Guardia di Finanza: "gli spetta", dice. E' un diritto che nessuno gli ha riconosciuto. Non glielo riconoscono a parole nemmeno i suoi avvocati, figurarsi se poteva riconoscerglielo con una sentenza la magistratura amministrativa.
Non è, infatti, nella disponibilità di un tribunale amministrativo il rapporto fiduciario del governo, di cui il capo di un corpo militare deve godere. Questa fiducia, al di là delle leggerezze amministrative commesse dallo staff di Tommaso Padoa-Schioppa, Roberto Speciale non ce l'ha, l'ha irrimediabilmente perduta. Tanto basta per dire che mai il generale sarebbe ritornato al comando della Finanza, come conferma anche il ministro dell'Economia. Al contrario, autoproclamatosi "di diritto" comandante - manco fossimo in una Repubblica delle Banane - il generale, bontà sua, decide di dimettersi. La grammatica istituzionale, nelle sue mosse, degrada a boutade. Prendiamolo sul serio soltanto per un momento. Ritiene di essere ancora il comandante generale della Guardia di Finanza. Vuole abbandonare, offeso nella sua dignità di soldato. Nelle mani di chi deve farlo, di chi ha il dovere di farlo? La legge è lì per essere rispettata. Articolo 1 della legge 23 aprile 1959, n. 159: "Il Corpo della Guardia di Finanza dipende direttamente e a tutti gli effetti dal ministro della Finanze".
Un principio ordinamentale così netto ed esplicito (inconsueto in un sistema giuridico che ama l'indeterminatezza) avrebbe dovuto imporre al generale Speciale di rimettere il mandato - che si è caricaturalmente assegnato - nelle mani del ministro dell'Economia. Non lo fa perché "non vuole collaborare con questo governo", scrive. Poco male, il governo potrà soltanto guadagnarci.
La faccenda si potrebbe liquidare così soltanto se non fosse assai sinistro che un generale, al comando di 59.874 militari in armi, non accetta di essere alle "dirette dipendenze" di un governo che gode della piena fiducia del Parlamento. Roberto Speciale non ne riconosce il potere, la legittimità, il dovere costituzionale di decidere dell'indirizzo politico e amministrativo del Paese e quindi anche di scegliere chi deve essere o non deve essere alla guida di un corpo, "parte integrante delle Forze Armate dello Stato e della forza pubblica".
Scrive al presidente della Repubblica, perché "è al di sopra di tutto, anche della politica, anche del governo". E' uno schiaffo all'Esecutivo, che non sorprende in un soldato infedele. Stupisce che il Quirinale accetti di ricevere la lettera del generale. Che, implicitamente, acconsenta che Speciale possa dimettersi da una responsabilità che non ha più e che nessuno - tanto meno il governo - gli ha riconosciuto. Meraviglia che il presidente della Repubblica acconsenta che un generale non si dimetta nelle mani dell'autorità politica a cui è sottordinato, di cui è dipendente. Confonde che il capo dello Stato accetti di svolgere il ruolo del tutto improprio di destinatario di una lettera che abusivamente gli è stata consegnata, chiudendo gli occhi sul disprezzo che il generale assegna al governo per di più prendendo per buono un presunto "spirito di servizio verso le istituzioni". E' un pericoloso, e inedito, precedente nella storia della Repubblica. Dovremo presto attenderci che il capo della polizia rifiuti di dimettersi nelle mani del ministro dell'Interno o che il capo di Stato maggiore della Difesa non consegni il suo addio al ministro della Difesa, tanto del governo si può fare a meno? La sensazione è che questo "caso Speciale", nato dalla debolezza del governo e dalla volontà di compromesso con un minaccioso network spionistico e illegale, di cui il generale è stato attore di prima fila, moltiplicherà le sue muffe, se non affrontato con energia. Di compromesso in compromesso, di timidezza in timidezza, siamo arrivati alla delegittimazione dei poteri del governo. Considerare quel soldato sleale e infedele, come pare fare oggi la maggioranza, soltanto un dissipatore di risorse pubbliche per qualche viaggio a sbafo in elicottero non è una buona strada. Meglio sarebbe ricordare la proposta del generale "tutto d'un pezzo" di violare i segreti d'ufficio avanzata al vice-ministro Visco (e rifiutata). O tenere a mente quando, con il governo di centro-destra, i segreti della Guardia di Finanza diventavano pubblici per essere utilizzati, in piena campagna elettorale, da Silvio Berlusconi con denunce alla magistratura. Pensare di lisciare il pelo a quel soldato e ai soldati come lui, è peggio di una cattiva idea. E' un errore politico e istituzionale.
(18 dicembre 2007)

04/12/07

Sulle proposte di riforma della legge elettorale

Quella della legge elettorale è un’altra delle tante “bufale” che ci raccontano. Certo una legge elettorale deve avere alcune regole elementari perché si possa parlare di “democrazia” ma non stà scritto da nessuna parte che la legge elettorale permetta la governabilità in un Paese. La governabilità è data solo e soltanto dal comportamento dei partiti che avrebbero come primo loro dovere la coerenza e il rispetto dei programmi elettorali per i quali hanno chiesto il voto ai loro elettori. Non deve essere permesso che durante la legislatura si formino nuovi partitini come di fatto accade nel nostro paese. Se un parlamentare eletto con un partito vuole fondare un nuovo raggruppamento o un nuovo partito o anche se vuole passare da un partito ad un altro partito deve dimettersi da parlamentare perché è stato votato sì come persona singola ma comunque all’interno di un partito e di un programma elettorale. Gli subentrerà il primo dei non eletti dello stesso partito nella sua area territoriale e lui avrà così la possibilità di presentarsi alla successiva tornata elettorale al giudizio degli elettori con il partito e il programma elettorale che meglio riterrà dimostrando impegno e coerenza non interessati. Uno sbarramento nell’ordine del 2,5-3 % appare necessario per non permettere una esagerata frammentazione ma comunque dobbiamo ricordarci che se gli elettori sono disposti a votare un partito il loro voto và rispettato. Altra cosa è invece quella dei privilegi che sono accordati ai partiti in termini di rimborsi ai vari livelli. Se tali rimborsi fossero drasticamente ridimensionati sono sicuro che già per questo avremmo assai meno partiti. I partiti e i giornali di partito dovrebbero trarre i loro proventi prevalentemente dal contributo dei cittadini iscritti al partito e i cittadini potrebbero detrarre dalle loro dichiarazioni dei redditi le elargizioni a favore di partito fino ad un ammontare nell’ordine di 10-15 mila euro. Ulteriori finanziamenti fatti ai partiti non dovrebbero avere nessuna facilitazione e ci dovrebbe comunque essere l’obbligo di dichiarare sia da parte del donante che da parte del partito che riceve. Ciascun partito ( o raggruppamento di partiti) dovrebbe presentare con le liste anche un chiaro programma elettorale cosicché l’elettore possa scegliere con giudizio di merito chi votare. Nel programma dovrebbero essere chiari gli intenti e le modalità per raggiungere gli obiettivi (ad es. se dico che voglio ridurre il debito pubblico devo anche dire attraverso quali meccanismi ed economie voglio raggiungere l’obiettivo). Fatto ciò che si usi un sistema maggioritario o uno proporzionale non cambia molto le cose. Certo non devono essere presenti i giochetti dei resti né le opzioni di scelta che fino ad oggi sono stati costantemente fatti e che non hanno nulla di democratico. Dovranno perciò essere vietate le candidature in più collegi o quanto meno non dovrà essere possibile che io rinunci in un collegio a favore del candidato che mi segue dello stesso mio partito. Se rinuncio in un collegio il posto andrà al candidato del partito che ha preso più voti dopo il mio partito

Per quanto attiene le preferenze credo sia indispensabile che il cittadino possa scegliere chi votare e perciò sono per un meccanismo ove si esprima la preferenza all’interno di una lista.

Non mi pare di aver sentito nulla di quanto sopra esposto nelle varie proposte di legge elettorale dove i giochetti restano tutti in piedi. Qualcuno provi ad indovinare perché??!!

OK notizie