31/12/07

Augurio per l'anno nuovo

Pensierino di augurio per l’Anno nuovo (ma non so come): al Presidente della Repubblica e al governo Prodi e al Parlamento e a tutti gli altri “beneficiati” perchè guadagnino nell’anno nuovo abbastanza meno di quanto hanno guadagnato in quest’anno ormai finito e agli italiani di guadagnare un po’ di più così da apparire tutti insieme un po’ più uguali e reciprocamente più graditi. E chissà che non migliori anche l’intero paese.

Buon anno a tutti

24/12/07

Auguri

Buon Natale a quei pochi (solo per ora?) che visitano il Blog con l'augurio che il numero cresca ma soprattutto, ed è quello che conta, che cresca sempre più il numero di persone che condivide le nostre opinioni.

Per quelli che ci sono già : niente paura siamo già tanti e non solo sulla rete (che in fondo è un luogo di confronto e facile amplificazione dei nostri pensieri ma soprattutto è un luogo dove non si perdono le tracce).

Che l'anno nuovo ci porti un Prodi magari ristretto ma sempre in sella e speriamo che Mastella cambi testa o almeno Ministero (verranno un giorno tempi migliori nonostante il detto abruzzese:chi l’ha dette ch nun po’ venì lu peggio”?).

Quanto a una politica di rigore e al servizio dei cittadini semmai ci penseremo l’anno prossimo. Per quest’anno ci basta questo e in fondo sono solo piccoli desideri (come i mandarini con cenere e carbone nella calza della Befana) e facili da avverarsi.

23/12/07

Colpevoli gli intercettatori o gli intercettati?

Viene davvero in mente che siamo sulla via del non ritorno. Berlusconi offende Magistrati, dipendenti della Rai, giornali e giornalisti per cercare un’impossibile difesa (è l’unica attenuante che può essergli concessa quella appunto che permette all’imputato di tentare comunque una difesa anche se poco consona ad un parlamentare) rispetto ai fatti inoppugnabili che le intercettazioni telefoniche evidenziano (se di interesse giudiziario o meno lo stabiliranno i magistrati) e cosa accade? Non ci si preoccupa delle offese del Cavaliere né di quello che le intercettazioni lasciano supporre ma ci si preoccupa del diritto alla “privacy” come se l’onorevole Berlusconi avesse telefonato ad un familiare o ad un amico d’infanzia e non ad un alto dirigente Rai. E subito il nostro valente Ministro di grazia e Giustizia ci ripropone la “Legge Mastella sulle intercettazioni” (vedi mio articolo del 25 Maggio ) attraverso la quale noi comuni cittadini saremo liberati appunto dallo scandalo di sapere cosa fanno i nostri politici e potremo con gioia lasciare in eredità ai nostri figli l’eventuale conoscenza di loro colpe.

Come mè e senz’altro con più chiarezza esprime la sua indignazione l’articolo del Blog di Corrias Gomez Travaglio cui vi rimando ( http://voglioscendere.ilcannocchiale.it/post/1728506.html ) e che di seguito riporto

“23 dicembre 2007
Nient'altro che la verità
Non c’è più niente da fare. Ormai Berlusconi ha vinto. Dopo 15 anni di slogan falsi bombardati con gli ordigni radioattivi delle sue televisioni e della sua Rai, è riuscito a contaminare tutto il paese, tutto l’ambiente che lo circonda, compresi i politici del centrosinistra che dovrebbero opporglisi, compresi tanti intellettuali e giornalisti. Per cui, ormai, parlano e pensano (si fa per dire) quasi tutti come lui. Lo dimostrano, se ve ne fosse ancora bisogno, gli alti lai del Club degli Intoccabili – da Bertinotti a Mastella, da Franceschini a Berlusconi, per non parlare delle mosche cocchiere dalemian-veltroniane Latorre, Caldarola e Polito e dei cerchiobottisti alla Sergio Romano – contro le intercettazioni, chi le effettua e chi le pubblica.
L’altra sera, ad Annozero, ne hanno parlato due dei pochissimi intellettuali immuni da radiazioni: Franco Cordero e Antonio Tabucchi. Infatti parevano due marziani. Cordero ricorda che le intercettazioni non manipolano nulla: sono l’”autoritratto” di chi parla, nel bene e nel male. Tabucchi rammenta che i politici non sono mai intercettati: intercettati sono i malfattori con i quali parlano spesso certi politici. I quali, se non vogliono finire anch’essi indirettamente intercettati, hanno un rimedio facile facile: non parlare con malfattori e chiamare, per dire, la Comunità di sant’Egidio. Ragionamenti di puro buonsenso, che però cadono nel vuoto. Per leggere qualcosa di sensato bisogna rivolgersi a un giornalista e scrittore di origine italiana che vive in America, Alexander Stille, il quale due giorni fa ha scritto un articolo memorabile su Repubblica dal titolo Il Paese dove i potenti vanno in galera. E’ una boccata d’aria nel “mare nostrum” di cazzate e tartuferie assortite.
Dopo aver elencato una serie impressionante di potentissimi politici e vip americani finiti in galera senza batter ciglio, Stille spiega: “Alcuni imputati hanno cercato di dipingersi come vittime della stampa o dei pubblici ministeri locali di diverso orientamento politico, ma una volta emerse le prove inequivocabili dei reati commessi, sono stati abbandonati dai compagni di partito. (…) I fini politici possono essere contestabili a livello individuale, ma ciò che conta sono i fatti. Se un pubblico ministero produce prove certe di un illecito, nessuno, neppure i più stretti alleati politici dell’imputato, può permettersi di ignorarle, indipendentemente dalla fonte da cui provengono. (…) Al di là del generale consenso politico esistente negli Usa sul fatto che l’illegalità, in qualunque ambito, è inaccettabile, anche l’atteggiamento degli imputati qui in America è diverso. (…) In Italia i processi si trascinano per anni e le condanne non comportano conseguenze fino all’esaurimento di tutti i gradi di giudizio, un iter che richiede spesso più di un decennio. Se gli imputati siedono in Parlamento vi restano fino all’ultimissimo momento senza ricevere alcun invito a dimettersi. Anche dopo una condanna le conseguenze sono minime, ammorbidite da leggi ad personam o da amnistie, così che il ‘potente di turno’ al massimo trascorre qualche mese agli arresti domiciliari nella lussuosa dimora acquistata con i frutti del suo operato corrotto. E nonostante le condanne, montagne di prove e sentenze mitissime, nelle interviste questi signori si dipingono come vittime innocenti e si scagliano contro chi ha osato svelare le loro malefatte”.
Poi Stille butta un occhio desolato sul nostro sistema dell’informazione, anzi della disinformazione al servizio del potere: “La cosa forse peggiore è che in Italia gli elementi oggettivi paiono contare pochissimo rispetto alle fonti che li producono. Così come nell’attuale caso Rai-Berlusconi-Saccà - nessuno contesta la veridicità delle intercettazioni telefoniche del dirigente Rai Agostino Saccà e quasi nessuno parla del quadro agghiacciante della gestione di potere in Italia - ma vengono respinte perché vengono dalla cosiddetta ‘armata rossa della magistratura’ e perché sono state pubblicate da Repubblica. Forse l’aspetto più importante della realtà americana, portata qui ad esempio, è che negli Usa esistono delle istituzioni, come i tribunali e la stampa, che, indipendentemente dal colore politico, operano in autonomia, producendo elementi oggettivi da tenere necessariamente in considerazione, nel bene e nel male. A ragione o a torto, quando un sito web conservatore pubblicò le prove della relazione del Presidente Clinton con Monica Lewinsky, immediatamente perse importanza la fonte della rivelazione, importante era stabilirne l’autenticità. Lo stesso accadde quando un altro sito pubblicò le prove che Rudolph Giuliani aveva messo la sua amante, diventata poi sua moglie, sotto la protezione della polizia a spese dei contribuenti. Quando la veridicità dell’informazione fu confermata, Giuliani fu costretto a scusarsi e a fornire spiegazioni”.
In Italia invece devono scusarsi i magistrati e i giornalisti che scoprono una notizia vera sgradita al potere. Due esempi, tra i più recenti. Francesco Verderami è un ottimo giornalista del Corriere della Sera. Eppure l’altroieri, intervistando alcuni senatori del Partito democratico sull’intercettazione Berlusconi-Saccà e sulle intercettazioni in generale, ha scritto cose stupefacenti. Non tanto per le risposte dei senatori del Pd (il problema non è quel che Berlusconi e Saccà si dicono, ma che i giudici e la stampa l’abbiano scoperto). Bensì per le domande del giornalista. Verderami parla di “intercettazioni à la carte”, mentre basta chiedere lumi ai colleghi della giudiziaria per sapere che sono regolarmente depositate nell’avviso chiusura indagini recapitato agl’indagati Berlusconi e Saccà. Invoca il “rispetto delle regole”, sventola imprecisati “valori scritti nella Costituzione calpestati come uno zerbino”: quasi che i giornalisti – Corriere compreso – che raccontano intercettazioni pubbliche, penalmente rilevanti e di altissimo interesse politico fossero dei delinquenti.
Aggiunge che “non si era mai sentita finora un’intercettazione lanciata sui siti web e riproposta in tv e sui giornali”, dimenticando che sui siti web e sui giornali sono disponibili da due anni tutte le intercettazioni di Calciopoli; e che ogni sera in tv si ascoltano le telefonate, si leggono le mail e si mostrano i siti preferiti dei sospettati e degl’imputati dei vari delitti da copertina, nel bel mezzo delle indagini. Che su questo doppio binario sorvolino i politici, preoccupati di proteggere il Club degli Intoccabili, non stupisce. Che Bruno Vespa lacrimi per “la violazione delle garanzie e della dignità delle persone” quando le persone sono gli amici Berlusconi e Saccà, mentre se ne infischia della privacy di tanti cittadini comuni di Cogne, Garlasco e Rignano, fa parte del personaggio. Ma è strano che un collega bravo come Verderami non ribatta alcunchè al solito Polito, che nello stesso articolo elogia il “vero garantismo di Berlusconi quando Fassino e D’Alema finirono nel tritacarne”. Tutti ricordano che fu proprio il Giornale del “vero garantista Berlusconi” a pubblicare la telefonata Fassino-Consorte (“Abbiamo una banca?”) il 3 gennaio 2006, vigilia delle elezioni, sebbene fosse ancora segretissima, neppure trascritta dagli inquirenti in attesa della procedura parlamentare. Possibile che Verderami non abbia nulla da replicare all’incontinente Caldarola che invoca addirittura “un’inchiesta a Roma sulla Procura di Napoli” per scoprire “da dove sono filtrati i documenti”? Basterebbe chiedere a Giovanni Bianconi, che quei documenti ha pubblicato come tutti i migliori cronisti, per sapere che le carte non “filtrano” da alcuna Procura: sono depositate nelle mani degli avvocati. E, non essendo segrete, non solo se ne può, ma se ne deve parlare.
E’ un po’ triste vedere tanti bravi colleghi farsi afoni dinanzi a politici che straparlano, in un’osmosi tra intervistatore e intervistato che rende indistinguibili domande e risposte. Come se il giornalista dovesse limitarsi a registrare le corbellerie che ascolta, senza contestarle per ristabilire un minimo di oggettività dei fatti. La stessa sindrome ha colpito un altro fuoriclasse come Luca Telese, che sul Giornale ha intervistato il solito Polito lasciandogli dire che in Inghilterra quel che accade in Italia con le intercettazioni è ”semplicemente impensabile”. Eppure non può dimenticare che il 17 gennaio 1993, il Sunday Mirror e il Sunday People pubblicarono il testo della telefonata erotica tra Carlo d’Inghilterra e Camilla Parker abusivamente intercettata dai servizi o da 007 ingaggiati da Lady D. E che il 7 giugno scorso la Corte europea per i diritti dell’uomo ha condannato la Francia perché un tribunale aveva condannato due giornalisti per aver pubblicato in un libro le intercettazioni illegali disposte da Mitterrand su alcuni avversari politici: secondo l’Alta Corte, i giornalisti fecero benissimo a pubblicarle perché, trattandosi di politici che volontariamente si espongono al controllo della stampa e dell’opinione pubblica, il loro diritto alla riservatezza viene meno dinanzi al diritto della gente a sapere e dei giornalisti a informarla: che la notizia sia segreta o illegalmente acquisita non conta; conta solo che sia vera.
Ora, come potremo difenderci dal bavaglio che il Club degl’Intoccabili ci sta apparecchiando, se alcuni di noi collaborano con gli imbavagliatori?

Mani sporche

Dal 6 dicembre in libreria


Come prima, più di prima. Quindici anni dopo il biennio magico di Mani Pulite, l’Italia delle mani sporche ha perfezionato i metodi per rendersi più invisibile e invulnerabile. Prima sotto accusa erano i politici e il mondo industriale. Ora le parti sembrano invertite: sotto accusa sono soprattutto i magistrati.
Ecco che cosa è successo negli ultimi anni, dal 2001 al 2007. Dal governo del cavalier Berlusconi e dell’ingegner Castelli a quello del professor Prodi e del ras di Ceppaloni, Mastella.
Prima le leggi ad personam, ora le leggi ad personas, a beneficio degli intoccabili.
La musica non cambia: è tutta colpa dei magistrati. Quei pochi che resistono, combattono da soli, spesso abbandonati dallo stesso Csm, vessati dalla stampa, criticati dalle altre istituzioni.
Le leggi vergogna varate da Berlusconi (Cirami, ex Cirielli, Castelli, falso in bilancio, Gasparri sulla tv, Frattini sul conflitto d’interessi, riforma-porcata elettorale) e che ci hanno resi ridicoli al cospetto internazionale (ricordate l’Economist?), dovevano essere subito smantellate dal centro sinistra. Invece sono ancora in vigore. A quelle se ne sono aggiunte altre come l’indulto per svuotare le carceri (di nuovo piene), le intercettazioni e il bavaglio alla stampa, l’ordinamento giudiziario Mastella: tutto in barba alle promesse elettorali dell’Unione. (“Il ministro Mastella copia le riforme della Cdl”, si compiace l’on. avv. Pecorella).
Prima era necessario corrompere, ora i soldi i partiti se li danno da soli, il controllato e il controllore sono sempre la stessa persona. E mentre Gherardo Colombo lascia la magistratura e Gian Carlo Caselli viene estromesso dalla Procura antimanfia, il giudice Carnevale, grazie a una legge apposita, ritorna in Cassazione a 76 anni (ci rimarrà fino a 83), Craxi viene pienamente riabilitato, anche a sinistra, e molti di coloro che sono stati riconosciuti colpevoli ora sono in Parlamento (alcuni in Commissione Antimafia). Forse per continuare a delinquere, sicuramente per difendere chi delinque.
Ma una parte della società civile e della magistratura non ci sta. E prova a resistere. Non lasciamoli soli.
La rassegna

Autori: Gianni Barbacetto, Peter Gomez, Marco Travaglio
Titolo: Mani sporche
Pagine: 914
Prezzo: 19,60
Collana: principioattivo"


21/12/07

Veltroni contro la burocrazia

Che dire? E bravo Veltroni stavolta cc’hai pproprio azzeccato. Continua così e vedrai che ne verranno fuori delle belle ma soprattutto così diventi più comprensibile ai cittadini e perciò compreso.

Veltroni contro la burocrazia
"L'Italia ha il demone del non fare"

ROMA - "In Italia c'è il demone del non fare, si preferisce stare tranquilli e non fare guardando con sospetto chi, invece, fa", ha detto oggi il sindaco di Roma, Walter Veltroni, nel corso della presentazione del corridoio militare dell'ospedale San Giovanni di Roma.

Veltroni se la prende con la burocrazia: "Bisogna prendere a cannonate - ha proseguito - l'abitudine di questo Paese di rimandare tutto alla burocrazia, che è un elefante seduto sulla velocità del Paese".

E bacchetta il malcostume dilagante, sottolineando che "se bisogna passare per stanze e uffici per ottenere una autorizzazione, ci si può imbattere nel mascalzone: vedo riemergere ovunque fenomeni di corruzione".

Nel nostro Paese, per il leader del Pd, c'è l'idea che "la decisione è un pericolo". "Ma la corruzione - ha proseguito - nasce dalla vischiosità e dalla poca trasparenza burocratica". "Il problema non sono i cittadini ma le convenienze", ha concluso.

(19 dicembre 2007)

Non disturbare i manovratori

Riprendo e publico dal Blog di Travaglio
Non disturbare i manovratori

Di Marco travaglio
Nella scorsa legislatura ebbero grande risonanza mediatica (almeno sui giornali) gli appelli promossi e firmati da alcuni fra i nostri più prestigiosi giuristi e docenti universitari contro le leggi vergogna del governo Berlusconi e contro gli attacchi dell'allora premier all'indipendenza e all'autonomia della magistratura. Qualcuno si domanderà: che fine han fatto quei giuristi e docenti universitari ora che le leggi vergogna (dall'indulto al bavaglio di Mastella ai giornalisti su intercettazioni e atti d'indagine) le promuove il centrosinistra, ora che gli attacchi all'indipendenza e all'autonomia della magistratura li muove l'Unione all'unisono col centrodestra?
Ottima domanda. Ma la risposta è ancora meglio: gli stessi giuristi e docenti universitari, il 29 ottobre, hanno promosso e sottoscritto un appello contro l'incredibile richiesta di trasferimento del pm Luigi De Magistris da parte del cosiddetto ministro della Giustizia (se n'è occupato proprio oggi il Csm, per rinviare un'altra volta). I princìpi citati dall'appello sono gli stessi che sostenevano gli appelli anti-Berlusconi. Che cos'è cambiato? Che nessun giornale ha pubblicato l'appello. I giornali di destra pretendevano di censurare i riferimenti alla continuità col governo Berlusconi. I giornali di sinistra, evidentemente, preferiscono non disturbare il manovratore. Anzi, i manovratori. I giornali "indipendenti", anzichè esserlo dagli schieramenti, lo sono dalla verità dei fatti. Pubblico l'appello "clandestino" qui di seguito, con i nomi dei primi firmatari. Come si diceva qualche anno fa, leggete e diffondete.


Appello
La scorsa legislatura è stata connotata da forti tensioni tra potere politico e magistratura, con frequenti interferenze del primo sull’attività della seconda. Ci si attendeva, nella nuova, un radicale mutamento di rotta, in armonia con le dichiarazioni programmatiche. Si registra, invece, un’inquietante continuità di indirizzo, come denota il caso dell’inchiesta Why Not della procura di Catanzaro. Appare a dir poco sconcertante che a chiedere per ‘motivi di particolare urgenza’ il trasferimento cautelare del pubblico ministero procedente sia lo stesso guardasigilli implicato nelle indagini. E’ vero che l’iscrizione nel registro degli indagati è successiva a tale richiesta, ma è altrettanto vero che il coinvolgimento del guardasigilli nelle indagini era da tempo di pubblico dominio. Tanto meno si giustifica l’inusitato provvedimento di avocazione con cui il procuratore generale facente funzioni ha sottratto l’inchiesta al magistrato procedente, sul presupposto di un’incompatibilità per ‘interesse nel procedimento’ ai sensi dell’art. 36 c.p.p. Prudenza avrebbe voluto che, prima di adottare un provvedimento così eccezionale, si attendesse l’esito del giudizio disciplinare; in sua assenza si può rovesciare il discorso a base dell’avocazione ed ipotizzare, con almeno pari plausibilità, un ‘interesse’ del ministro a liberarsi del proprio inquirente e a precostituire cause di incompatibilità attraverso l’azione disciplinare. In questo quadro la revoca dell’avocazione e la restituzione dell’indagine al suo originario titolare sono i passi necessari perché non sia ulteriormente minata la già precaria fiducia del cittadino nell’amministrazione della giustizia e nell’uguaglianza davanti alla legge. Quanto alla circostanza che il pubblico ministero dell’inchiesta Why Not abbia pubblicamente denunciato l’illegittimità dell’avocazione e – insieme ad altri colleghi – pressioni e intimidazioni da parte di soggetti istituzionali, va senza dubbio riconosciuto che competano ai magistrati doveri di riserbo nei riguardi dei mass-media; ma è solo assicurando le condizioni per la legalità e l’autonomia delle indagini, che si può pretendere l’osservanza di quei doveri.

29 ottobre 2007

Sergio Chiarloni (università di Torino)
Mario Dogliani (università di Torino)
Paolo Ferrua (università di Torino)
Rosanna Gambini (università di Torino)
Andrea Scella (università di Udine)

2007 Missioni di pace, Napolitano: ''Non possiamo sottrarci a responsabilità''

Leggo su ADN Cronos del 21 Dicembre ( http://www.adnkronos.com/IGN/Politica/?id=1.0.1695663037 ): 2007 Missioni di pace, Napolitano: ''Non possiamo sottrarci a responsabilità''dove si dice “……… Proprio per assicurare alle missioni internazionali di pace che vedono impegnati i militari italiani il sostegno finanziario necessario, ''pur con un bilancio dello Stato gravato da un debito pubblico accumulato nei decenni passati'', Napolitano esorta a ''trovare le risorse per le nostre Forze armate''…….”

Commento: certo Presidente bisogna reperire i fondi. Cosa ne pensa di utilizzare i risparmi che la Camera, il Senato e lo stesso Quirinale saranno in grado di fare riducendo gli stipendi del personale dipendente e quelli dei parlamentari?

18/12/07

Il caso dell’ex generale della Guardia di Finanza


Ieri dopo la lettura di alcuni quotidiani e la notizia delle “dimissioni del Generale Speciale” mi era venuto in mente di scrivere qualcosa per questo fatto che a mio avviso appariva grave. Non capivo perché il Presidente della repubblica, che aveva firmato la lettera di revoca del Generale, inviatagli dal Governo accettava in qualche modo le dimissioni e le trasmetteva al Governo. Mi sembrava che quella lettera (senz’altro irriguardosa se scritta da una alta carica dell’esercito) non dovesse essere ricevuta dal presidente perché di fatto il Generale era già destituito dall’incarico e non poteva in nessun modo presentare una lettera di dimissioni. Poi nel dubbio ho deciso di prendere tempo e documentarmi ancora un po’.

Questa mattina, leggo come mio solito alcuni quotidiani e trovo l’articolo di D’Avanzo che trovo puntuale e chiarificatore all’indirizzo: http://www.repubblica.it/2007/11/sezioni/politica/speciale-caso/soldato-sleale/soldato-sleale.html ). L’articolo è così puntuale e non saprei come meglio riferirlo e così lo pubblico per intero nel mio Blog.

POLITICA

IL COMMENTO

Un soldato sleale

di GIUSEPPE D'AVANZO


CHE il generale Roberto Speciale fosse un soldato sleale, s'era avuto già modo di apprezzarlo. Che un militare che giura fedeltà alla Repubblica e all'osservanza della Costituzione potesse spingersi fino a un gesto eversivo di insubordinazione allo Stato democratico, anche il più severo dei suoi critici non avrebbe potuto immaginarlo. Invece, è accaduto, accade - ed è la vera questione da affrontare - nell'indifferenza di istituzioni distratte o intimidite, nel silenzio di una politica incapace di guardare oltre la propria mediocre convenienza del momento. Come se in questa storia non fossero in gioco le ragioni prime di una democrazia: la legittimità di un governo eletto dal Parlamento; le sue prerogative di organo costituzionale chiamato ad assolvere il compito di direzione politica del Paese. E' questa legittimità costituzionale che il generale Speciale, con la sua grottesca lettera di dimissioni, nega, rifiuta, disprezza, umilia. E' alquanto minimalista - quasi gregario - definire soltanto "irrituale" quella lettera, come capita a Romano Prodi. Assai poco convenzionale è per il Quirinale dichiarare - nei fatti - ricevibile quella missiva offensiva per il governo, per poi trasmetterla a Palazzo Chigi. L'iniziativa di Speciale è davvero soltanto irrituale e il destinatario della lettera può essere correttamente il capo dello Stato? E' difficile sostenerlo e pare grave accettarlo senza batter ciglio.
Il generale infedele sostiene di avere conquistato "il diritto" ad essere comandante della Guardia di Finanza: "gli spetta", dice. E' un diritto che nessuno gli ha riconosciuto. Non glielo riconoscono a parole nemmeno i suoi avvocati, figurarsi se poteva riconoscerglielo con una sentenza la magistratura amministrativa.
Non è, infatti, nella disponibilità di un tribunale amministrativo il rapporto fiduciario del governo, di cui il capo di un corpo militare deve godere. Questa fiducia, al di là delle leggerezze amministrative commesse dallo staff di Tommaso Padoa-Schioppa, Roberto Speciale non ce l'ha, l'ha irrimediabilmente perduta. Tanto basta per dire che mai il generale sarebbe ritornato al comando della Finanza, come conferma anche il ministro dell'Economia. Al contrario, autoproclamatosi "di diritto" comandante - manco fossimo in una Repubblica delle Banane - il generale, bontà sua, decide di dimettersi. La grammatica istituzionale, nelle sue mosse, degrada a boutade. Prendiamolo sul serio soltanto per un momento. Ritiene di essere ancora il comandante generale della Guardia di Finanza. Vuole abbandonare, offeso nella sua dignità di soldato. Nelle mani di chi deve farlo, di chi ha il dovere di farlo? La legge è lì per essere rispettata. Articolo 1 della legge 23 aprile 1959, n. 159: "Il Corpo della Guardia di Finanza dipende direttamente e a tutti gli effetti dal ministro della Finanze".
Un principio ordinamentale così netto ed esplicito (inconsueto in un sistema giuridico che ama l'indeterminatezza) avrebbe dovuto imporre al generale Speciale di rimettere il mandato - che si è caricaturalmente assegnato - nelle mani del ministro dell'Economia. Non lo fa perché "non vuole collaborare con questo governo", scrive. Poco male, il governo potrà soltanto guadagnarci.
La faccenda si potrebbe liquidare così soltanto se non fosse assai sinistro che un generale, al comando di 59.874 militari in armi, non accetta di essere alle "dirette dipendenze" di un governo che gode della piena fiducia del Parlamento. Roberto Speciale non ne riconosce il potere, la legittimità, il dovere costituzionale di decidere dell'indirizzo politico e amministrativo del Paese e quindi anche di scegliere chi deve essere o non deve essere alla guida di un corpo, "parte integrante delle Forze Armate dello Stato e della forza pubblica".
Scrive al presidente della Repubblica, perché "è al di sopra di tutto, anche della politica, anche del governo". E' uno schiaffo all'Esecutivo, che non sorprende in un soldato infedele. Stupisce che il Quirinale accetti di ricevere la lettera del generale. Che, implicitamente, acconsenta che Speciale possa dimettersi da una responsabilità che non ha più e che nessuno - tanto meno il governo - gli ha riconosciuto. Meraviglia che il presidente della Repubblica acconsenta che un generale non si dimetta nelle mani dell'autorità politica a cui è sottordinato, di cui è dipendente. Confonde che il capo dello Stato accetti di svolgere il ruolo del tutto improprio di destinatario di una lettera che abusivamente gli è stata consegnata, chiudendo gli occhi sul disprezzo che il generale assegna al governo per di più prendendo per buono un presunto "spirito di servizio verso le istituzioni". E' un pericoloso, e inedito, precedente nella storia della Repubblica. Dovremo presto attenderci che il capo della polizia rifiuti di dimettersi nelle mani del ministro dell'Interno o che il capo di Stato maggiore della Difesa non consegni il suo addio al ministro della Difesa, tanto del governo si può fare a meno? La sensazione è che questo "caso Speciale", nato dalla debolezza del governo e dalla volontà di compromesso con un minaccioso network spionistico e illegale, di cui il generale è stato attore di prima fila, moltiplicherà le sue muffe, se non affrontato con energia. Di compromesso in compromesso, di timidezza in timidezza, siamo arrivati alla delegittimazione dei poteri del governo. Considerare quel soldato sleale e infedele, come pare fare oggi la maggioranza, soltanto un dissipatore di risorse pubbliche per qualche viaggio a sbafo in elicottero non è una buona strada. Meglio sarebbe ricordare la proposta del generale "tutto d'un pezzo" di violare i segreti d'ufficio avanzata al vice-ministro Visco (e rifiutata). O tenere a mente quando, con il governo di centro-destra, i segreti della Guardia di Finanza diventavano pubblici per essere utilizzati, in piena campagna elettorale, da Silvio Berlusconi con denunce alla magistratura. Pensare di lisciare il pelo a quel soldato e ai soldati come lui, è peggio di una cattiva idea. E' un errore politico e istituzionale.
(18 dicembre 2007)

04/12/07

Sulle proposte di riforma della legge elettorale

Quella della legge elettorale è un’altra delle tante “bufale” che ci raccontano. Certo una legge elettorale deve avere alcune regole elementari perché si possa parlare di “democrazia” ma non stà scritto da nessuna parte che la legge elettorale permetta la governabilità in un Paese. La governabilità è data solo e soltanto dal comportamento dei partiti che avrebbero come primo loro dovere la coerenza e il rispetto dei programmi elettorali per i quali hanno chiesto il voto ai loro elettori. Non deve essere permesso che durante la legislatura si formino nuovi partitini come di fatto accade nel nostro paese. Se un parlamentare eletto con un partito vuole fondare un nuovo raggruppamento o un nuovo partito o anche se vuole passare da un partito ad un altro partito deve dimettersi da parlamentare perché è stato votato sì come persona singola ma comunque all’interno di un partito e di un programma elettorale. Gli subentrerà il primo dei non eletti dello stesso partito nella sua area territoriale e lui avrà così la possibilità di presentarsi alla successiva tornata elettorale al giudizio degli elettori con il partito e il programma elettorale che meglio riterrà dimostrando impegno e coerenza non interessati. Uno sbarramento nell’ordine del 2,5-3 % appare necessario per non permettere una esagerata frammentazione ma comunque dobbiamo ricordarci che se gli elettori sono disposti a votare un partito il loro voto và rispettato. Altra cosa è invece quella dei privilegi che sono accordati ai partiti in termini di rimborsi ai vari livelli. Se tali rimborsi fossero drasticamente ridimensionati sono sicuro che già per questo avremmo assai meno partiti. I partiti e i giornali di partito dovrebbero trarre i loro proventi prevalentemente dal contributo dei cittadini iscritti al partito e i cittadini potrebbero detrarre dalle loro dichiarazioni dei redditi le elargizioni a favore di partito fino ad un ammontare nell’ordine di 10-15 mila euro. Ulteriori finanziamenti fatti ai partiti non dovrebbero avere nessuna facilitazione e ci dovrebbe comunque essere l’obbligo di dichiarare sia da parte del donante che da parte del partito che riceve. Ciascun partito ( o raggruppamento di partiti) dovrebbe presentare con le liste anche un chiaro programma elettorale cosicché l’elettore possa scegliere con giudizio di merito chi votare. Nel programma dovrebbero essere chiari gli intenti e le modalità per raggiungere gli obiettivi (ad es. se dico che voglio ridurre il debito pubblico devo anche dire attraverso quali meccanismi ed economie voglio raggiungere l’obiettivo). Fatto ciò che si usi un sistema maggioritario o uno proporzionale non cambia molto le cose. Certo non devono essere presenti i giochetti dei resti né le opzioni di scelta che fino ad oggi sono stati costantemente fatti e che non hanno nulla di democratico. Dovranno perciò essere vietate le candidature in più collegi o quanto meno non dovrà essere possibile che io rinunci in un collegio a favore del candidato che mi segue dello stesso mio partito. Se rinuncio in un collegio il posto andrà al candidato del partito che ha preso più voti dopo il mio partito

Per quanto attiene le preferenze credo sia indispensabile che il cittadino possa scegliere chi votare e perciò sono per un meccanismo ove si esprima la preferenza all’interno di una lista.

Non mi pare di aver sentito nulla di quanto sopra esposto nelle varie proposte di legge elettorale dove i giochetti restano tutti in piedi. Qualcuno provi ad indovinare perché??!!

23/11/07

Rai: rinviata la finction su vittima mafia

Mi chiedo: ma come è possibile che dei Magistrati dopo aver condannato un imputato non depositino entro i termini stabiliti le motivazioni di una sentenza e che la sentenza stessa venga annullata per decorrenza dei termini?

Mi sono posto questa amara domanda dopo aver letto sul Corriere della Sera del 23 Novembre l’articolo “Rai: rinviata la finction su vittima mafia” che riferisce appunto un tal episodio (all’indirizzo:http://www.corriere.it/cronache/07_novembre_23/fiction_mafia_annullata_f0564c60-99f3-11dc-aff3-0003ba99c53b.shtml a cui vi rimando).

Qualcuno che sà di diritto mi aiuti a meglio comprendere perché ho davvero un’immensa difficoltà a comprendere e sono molto preoccupato.

21/11/07

A proposito della Legge Mastella

A proposito della Legge Mastella

A proposito della legge Mastella della quale avevo parlato, inascoltato dai più, qualche tempo fà in un articolo che ripropongo:

Sul disegno di legge Mastella per meglio comprendere

Tanto per essere chiari il disegno di legge "Mastella" approvato alla camera il 19 Aprile lo trovate all’indirizzo:(http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/showText?tipodoc=Ddlpres&leg=15&id=00262762&offset=436&length=59016&parse=no&stampa=si).
Se avrete la pazienza di cercarlo e leggerlo credo che come dice Travaglio vi potrete un po’ preoccupare e non essere poi tanto tranquilli. “

Ecco che il nostro Ministro la risfodera: Mastella: sbagliato pubblicare tutto cio' che non ha rilevanza penale

Spero che il Senato decida presto sul ddl sulle intercettazioni perché ogni cosa che fuoriesce che tocca l'elemento processuale è una cosa ingiusta, profondamente sbagliata, fuori da ogni norma più elementare di rispetto della persona". Il ministro della Giustizia Clemente Mastella reagisce così a proposito della pubblicazione delle intercettazioni per l'inchiesta sul fallimento della Hdc di Luigi Crespi da cui risulterebbero accordi per pilotare l'informazione televisiva a favore dell'ex premier Berlusconi.”

E lo fa, guarda caso, quando i cittadini vengono informati di un ulteriore grave “fatto della politica berlusconiana”: la totale sudditanza della Rai come ci scrive con dettaglio oggi la Repubblica.

Per l’On. Mastella i cittadini non dovrebbero essere informati per fatti così gravi e semmai verranno informati dopo 10-15 anni. Tanto che fà!

Per lui bisogna sempre per primo rispettare i diritti (io li chiamerei privilegi) dei cittadini (potenti aggiungerei) e non importa che siano dei malfattori. Solo dopo i tre livelli di giudizio e se condannati i cittadini potranno essere informati!!

14/11/07

Cinque per mille stabile e senza limiti

Cinque per mille stabile e senza limiti

L'avocazione dell'indagine di De Magistris

Leggo e riporto dal sito di Ferdinando Imposimato. Non sò dire su molte considerazioni che si fanno nell'articolo ma quanto vi si riferisce mi ha proccupato. Una cosa la rammento di sicuro la pratica dell'avocazione era ormai in disuso e solo di recente si è rifatta viva:

martedì 30 ottobre 2007

L'avocazione dell'indagine di De Magistris

L'avocazione dell'indagine di De Magistris

La pratica dell'avocazione è iniziata negli anni '60.

La sottrazione del processo al sostituto Luigi De Magistris mediante avocazione riporta alla memoria analoghe pratiche in uso negli anni sessanta settanta. A quel tempo, quando il potere politico voleva liberarsi di magistrati scomodi come Gerardo D' Ambrosio o Emilio Alessandrini, ostinati nella ricerca della verità sulle trame eversive e sulle stragi , favorite all'interno delle istituzioni e dei servizi asserviti al potere, faceva ricorso a Procuratori Generali compiacenti, quasi sempre romani; costoro sollevavano inesistenti conflitti di competenza con i magistrati milanesi per sottrarre ai titolari processi scottanti e trasferirli a Roma, ove venivano regolarmente insabbiati a scapito della giustizia e della verità e a vantaggio dei colpevoli.

Anche allora lo strumento iniziale dell'imbroglio era l'avocazione: un Procuratore Generale di un processo inventato a Roma per fatti inesistenti connessi con quelli milanesi sollevava conflitto di competenza con altri PM.

Nel conflitto, complice qualche giudice in Cassazione, aveva la prevalenza sempre la magistratura romana, che una volta ricevuto il processo, lo narcotizzava o lo affidava a mani amiche che provvedevano a condurre le indagini secondo la volontà del potere e senza disturbare il manovratore. La prassi ignobile iniziò con la rapina del processo per la strage di Piazza Fontana favorita da una infausta avocazione. Il processo da Milano venne a Roma, da qui venne dirottato a Catanzaro per poi tornare a Roma, dove Vittorio Occorsio aveva imboccato la strada giusta ma fu ucciso; e, dopo oltre vent'anni di indegni balletti, ritornò nella sua sede naturale di Milano . Dove vennero rinviati a giudizio alcuni dei presunti responsabili. Nel frattempo, erano morti assassinati alcuni magistrati che avevano capito come erano andate le cose: tra questi Emilio Alessandrini e lo stesso Occorsio, assassinati, erano morti molti testimoni importanti, ed il commissario onesto di Padova che indagava sulla pista nera venne rimosso.

L'avocazione fu usata anche per la P2

La stessa procedura venne seguita a Roma per il processo contro Licio Gelli che aveva buoni rapporti con alcuni terroristi, come Paolo Aleandri, che me lo raccontò , ma anche con il Presidente del Consiglio Giulio Andreotti e Francesco Cossiga, e con Vito Miceli, capo del SID (Servizio Informazione Difesa) , e con il Ministro Gaetano Stammati e tanti altri. Il processo venne sottratto al Pubblico Ministero milanese Gherardo Colombo e affidato a Roma nelle mani di chi lo insabbiò affermando che la P2 era una specie di associazione filantropica di nessun pericolo per la collettività. A quel tempo la Procura romana era notoriamente diretta da magistrati scelti da Giulio Andreotti e di sua totale fiducia.

Un freno alla pratica dell'avocazione:
l'indipendenza e imparzialità della magistratura.

Poi venne finalmente l'istituzione del Consiglio Superiore della Magistratura e la nomina dei magistrati al vertice delle Procure fu fatta nel rispetto dei meriti e con le garanzie di indipendenza e imparzialità stabilite dalla Costituzione. Nel frattempo con il nuovo codice di procedura penale del prof Giuliano Vassalli l'avocazione venne del tutto svuotata della sua portata di strumento lesivo della indipendenza dei magistrati, compresi i PM, e mantenuta solo per casi tassativi ruotanti attorno alla inerzia del magistrato del PM; se ad esempio un PM, indagando per un delitto gravissimo di corruzione o criminalità organizzata o terrorismo, non provvedeva, nonostante le prove, a iniziare l'azione penale, come era suo dovere, il Procuratore Generale interviene per sostituirsi al magistrato inerte ed insabbiatore.

Il ritorno della pratica dell'avocazione.

L'avocazione del procedimento condotto da Luigi De Magistris da parte della Procura Generale di Catanzaro ci riporta a quel triste passato e ci preoccupa enormemente: l'influenza nefasta dell'esecutivo delle inchieste giudiziarie più delicate é pesante. Viene violato il principio costituzionale della separazione dei tre poteri: legislativo, esecutivo, giudiziario.

Il tentativo di Mastella di avocare l'indagine contro Prodi e Mastella.

Venendo al fatto di oggi, mentre era in corso un'indagine contro Romano Prodi e Clemente Mastella, per episodi di corruzione per miliardi di lire – che sarebbero avvenuti quando il Presidente del Consiglio era presidente della Commissione Europea- é stata dapprima avviata dal Guardasigilli Mastella una procedura con richiesta di trasferimento del De Magistris per illecito disciplinare, e poi una procedura di avocazione del procedimento da parte del Procuratore Generale. In altre parole, non essendo stato possibile sottrarre il processo a De Magistris con il trasferimento del magistrato ad altro ufficio, richiesta di fatto bocciata dal CSM, si é pensato di trasferire il processo in altre mani: costoro, solo per orientarsi , avranno bisogno di qualche anno di tempo, data la mole di materiale sequestrato dal sostituto di Catanzaro.

E dunque l'appello del Presidente della Repubblica a proseguire le indagini verrà vanificato nei fatti, con tutta la buona volontà di chi riceve gli atti.

Intanto al magistrato De Magistris non é stato possibile addebitare alcuna strumentalizzazione politica poiché in quell'affare che coinvolge Mastella e Prodi, sono stati indagati anche alcuni esponenti del centro destra come Lorenzo Cesa, segretario dell'UDC, e Giuseppe Galati e lo stesso Presidente della Giunta regionale calabra Agazio Loiero.

Qual'è l'oggetto della indagine di De Magistris ?

Ma , attenzione, quale é il fatto che é oggetto della inchiesta di De Magistris? L'appropriazione di miliardi da parte di un comitato di affari di cui avrebbero fatto parte i predetti personaggi. La stampa ci ha correttamente informato che contro gli indagati non c'erano solo i tabulati delle telefonate passate attraverso i cellulari di Prodi, ma anche la accuse di un testimone importante, un politico detenuto, ex consigliere regionale calabro, che assistette ad una telefonata fatta dal faccendiere Antonio Saladino a Romano Prodi. Durante il colloquio con Prodi si sarebbe concordato che una volta formalizzata la candidatura di Prodi come Presidente del Consiglio alle elezioni politiche del 1996, il Saladino si sarebbe messo a sua disposizione per procurargli voti, come effettivamente fece. In cambio il Saladino avrebbe avuto dal Presidente della Commissione Prodi un aiuto per ottenere i finanziamenti miliardari dell'Unione Europea per diverse iniziative avviate nella Regione Calabria attraverso i programmi. Saladino si sarebbe aggiudicato diversi appalti per milioni di lire e poi di euro senza partecipare a gare Domanda: ma come si può risollevare la Calabria dalla crisi che l'attanaglia se i soldi dell'Unione Europea, sempre più distratta ed assente, anziché finanziare opere pubbliche e private, affluiscono nelle tasche di politici di maggioranza ed opposizione? E se un magistrato che cerca di portare alla luce le frodi comunitarie viene crocifisso anche con la complicità di magistrati asserviti al potere?

Qual'è il grande imbroglio ?

Ma andiamo avanti cercando di spiegare almeno in parte questo grande imbroglio, senza attendere i tempi biblici dei processi che si sta cercando di insabbiare. L'avocazione, cioé la sottrazione del processo a De Magistris, é stata decisa per motivi infondati che sono stati criticati da Gerardo D'Ambrosio, vittima a suo tempo di clamorose avocazioni e sottrazioni di processi; ma l'avocazione é stata deplorata anche dal giurista Franco Cordero, titolare di Procedura penale alla Sapienza. D'Ambrosio ha ritenuto pretestuosa la motivazione di “incompatibilità del procedimento” che non spiega niente, ed anzi alimenta le inquietudini. L'intervento del Ministro con la richiesta di trasferimento e l'avocazione del processo, una volta fallita la manovra del trasferimento, sono intervenute, guarda caso, mentre l'indagine stava per essere conclusa. Osserva D' Ambrosio che “ l'errore” del Ministro- ma si tratta di errore o di qualcos'altro?- é stato proprio quello di promuovere l'azione disciplinare contro chi, dal giugno 2007, indagava sulla persona del Ministro. E costui solo in seguito ha disposto l'azione disciplinare: e dunque la realtà non é quella che qualcuno ci vuole propinare sulla stampa: la notizia che coinvolge il Ministro Mastella e l'ineffabile Romano Prodi, era comparsa sulla stampa fin dal giugno 2006, poiché il Ministro é intercettato sul telefono di Antonio Saladino, il grande mazzettiere di questa storia i cui contorni appaiono sempre più definiti. E dunque l'iscrizione del Ministro nel registro degli indagati , al quale sono seguite le interessate dichiarazioni di solidarietà di Prodi - ( e che doveva fare Prodi, se non solidarizzare, essendo coinvolto nello stesso affare?) non é stata la stizzosa e strumentale reazione all'inizio dell'azione disciplinare da parte del Ministro ma un atto doveroso maturato prima della richiesta di trasferimento con il procedere delle indagini. E si é voluto fare credere il contrario.

Ma chi dovrebbe indagare quando tra i responsabili del reato ipotetico risultino
il Presidente del Consiglio o i Ministri ?

Quanto al problema affrontato con grande obiettività da Franco Cordero su chi deve indagare quando tra i responsabili del reato ipotetico risultino il Presidente del Consiglio o Ministri, essendo i fatti commessi nell'esercizio delle funzioni di governo, la risposta é semplice : la legge costituzionale 16 gennaio 1989 stabilisce che “il procuratore della Repubblica, omessa ogni altra indagine” nei 15 giorni dalla notizia trasmette gli atti al collegio istituito presso il tribunale del Capoluogo del distretto competente: collegio che svolge le funzioni del Pubblico Ministero o del GIP, in questo caso le indagini “Why not” di Roma. Ma il punto di fatto non esaminato da Cordero é proprio questo: i reati sarebbero stati commessi quando Prodi era Ministro, o quando invece era, come sembra accertato, Presidente della Commissione Ministeriale, e Mastella non era ancora Ministro della giustizia per il semplice fatto che non esisteva il governo Prodi?

Stando alle intercettazioni telefoniche sull'apparecchio di Saladino ed alle dichiarazioni del collaboratore, i fatti sarebbero avvenuti fuori dall'esercizio delle funzioni ministeriali; ed allora la competenza sarebbe di De Magistris e non del collegio per i reati ministeriali, cui gli atti sono stati mandati: se fosse stato diversamente, perché Prodi e Mastella non avrebbero eccepito mai l'incompetenza del sostituto De Magistris? Il quale non si é lasciato intimidire neanche dai proiettili inviatigli da inesistenti Brigate Rosse, in sintonia con analoga intimidazione fatta ai danni del giudice Clementina Forleo. Che ha avuto il coraggio di non lasciarsi blandire da promesse di prebende e di non essere intimidita dalle minacce attuate a mezzo telefonate silenziose e proiettili di improbabili brigatisti.

Intanto lo scandalo delle scalate bancarie che sono costate frodi di miliardi di euro a milioni di risparmiatori é stato insabbiato con gioia dei responsabili che restano abbarbicati alle loro poltrone come l'edera che “lecca la scorza dell'olmo tutore” ( Cirano de Bergerac).

Gravi scandali !

In ogni caso, - diciamo la verità- ce ne sarebbe abbastanza per chiedere le dimissioni di Prodi e di un paio di Ministri per i gravissimi scandali che sono già venuti alla luce. Anche se questo ci dovesse costare un ritorno di Berlusconi: poiché se la situazione dovesse restare quella che é - con gli stessi ladroni che ci fanno vergognare di essere di sinistra,- una riscossa del centro sinistra contro Berlusconi diventerebbe ancora più difficile. Ma questo lo sa Walter Veltroni o pensa solo all'ammodernamento e alle riforme della Costituzione?

Una storia dimenticata ...

Queste vicende di De Magistris e Forleo evocano alla mia memoria la drammatica e dimenticata storia di un altro coraggioso magistrato, Giuseppa Geremia, che nel 1996 indagava sullo scandalo della Cirio Bertolli DeRica e sull'alta velocità: scandalo che denunciai inutilmente a Prodi ed alla Commissione antimafia nel 1996 dopo una inchiesta magistrale svolte dalla Criminalpol e dall'Arma dei Carabinieri su mia richiesta. Per quella inchiesta io fui sottoposto ad attacchi concentrici di destra, che chiese la mia rimozione come relatore, e di sinistra, che non mi difese. E fui isolato in Commissione e la mia relazione non venne mai discussa; e guarda caso la legislatura venne interrotta bruscamente dopo due anni senza che ce ne fosse alcuna ragione seria: ciò significa che la fine della legislatura fu dovuta alla volontà di evitare che io denunziassi in commissione antimafia i responsabili istituzionali dei fatti di collusione mafiosa negli appalti. Nei rapporti della criminalpol emerse che sugli appalti per le grandi opere pubbliche avevano indagato Falcone e Borsellino e che questa poteva essere una causa della loro morte. La mia relazione non venne discussa : i vari Violante, Ayala, Bargone mi lasciarono solo e dissero che non c'erano prove di quello che affermavo. E poi venne definitivamente affossata dopo la mia sconfitta decisa dalla camorra dei casalesi interessata ai lavori dell'Alta velocità sulla tratta Napoli-Roma. Le mie residue speranze che giustizia fosse fatta dal PM Giuseppa Geremia andarono deluse. Costei aveva scoperto, dai documenti sequestrati dalla Guardia di Finanza, che “il garante dell'Alta Velocità, intrisa di imprese di mafia e camorra, era Romano Prodi, mentre Lorenzo Necci, per coinvolgere un poco tutti quelli che contavano, inventò un comitato nodi dell'Alta Velocità composto dalla senatrice Susanna Agnelli, dal prof Carlo Maria Querci dal dott Giuseppe De Rita e dall'architetto Renzo Piano: la spesa preventivata era di 9 miliardi di lire”. Ma il collegio dei revisori dei conti fece osservazioni che non ebbero risposte. Il 25 novembre, al termine di una inchiesta serrata fondata anche sulla perizia contabile di ben 13.000 pagine svolta dal prof Renato Castaldo, il PM Geremia, con l'avallo del Procuratore Coiro, chiese il rinvio a giudizio per abuso di ufficio dell'ex Presidente del Giudizio Romano Prodi, quale ex Presidente dell'IRI. Anche allora si tenne conto del momento in cui erano stati ipotizzati i fatti di corruzione e non la qualifica attuale del presidente del Consiglio. ed il rinvio a giudizio di Carlo Saverio Lamiranda, in quanto legale rappresentante della FISVI che aveva acquistato la Cirio senza avere una lira. Ed infatti Lamiranda sarebbe stato in seguito incriminato e condannato per bancarotta e frode comunitaria. Nel frattempo il governo presieduto da Prodi approvò, con l'appoggio del Ministro della Giustizia suo difensore, una nuova legge che modificava in senso restrittivo l'abuso in atti di ufficio; ed il Presidente Prodi venne assolto perché il fatto non sussiste; ma la legge era ad personam. Ma non é finita qui.

Lo scandalo sulla TAV e Nomisma di Prodi.

L'inchiesta sulla Cirio era appena cominciata che la dottoressa Geremia subì - sarà lei stessa a raccontarmelo - insulti telefonici, minacce, chiamate silenziose ed intimidazioni ad opera di ignoti. Esattamente come é accaduto a Luigi De Magistris e a Clementina Forleo. Nel frattempo la Geremia ridà slancio alla inchiesta sull'Alta Velocità con dentro l'affare Nomisma che, secondo i magistrati di La Spezia, era stato insabbiato dal PM Giorgio Castellucci. Le minacce e gli insulti si intensificano: Geremia ha paura, ma non per sé ma per l'anziana madre con cui vive da sola. Gli ignoti vigliacchi intensificano le minacce e gli insulti. Il movente si cela- lei intuisce- in quella inchiesta scottante che toccava santuari intoccabili. La Geremia era ancora più preoccupata perché il suo telefono era noto solo ad alcuni delle istituzioni. Ella decide di denunziare la tortura cui é sottoposta al commissariato di Polizia di Piazzale Clodio. Informa il procuratore della Repubblica Michele Coiro che le dà solidarietà ed avallo. Ma una tempesta si addensa sulla testa di Coiro: il CSM lo accusa di avere rapporti con il giudice Squillante, come se il rapporto istituzionale tra Procuratore Capo e Capo dei giudici delle indagini preliminari fosse vietato dalla legge e non necessario. Sta di fatto che dopo avere raccolto lo sfogo della Geremia, Coiro é costretto a lasciare la Procura di Roma. Da segnalare che Coiro era un esponente di magistratura democratica. E viene relegato alla direzione degli uffici di detenzione e pena. Egli é stato avvertito dal Ministro della Giustizia che se non se ne andrà , sarà sottoposto ad azione disciplinare. Poco dopo Coiro morì di crepacuore. “ La sua morte – mi confidò la Geremia - é stata un duro colpo per me. Mi ha sempre lasciato libertà di azione nella inchiesta sulla Cirio. Non glielo hanno perdonato. Lo hanno costretto a lasciare la Procura di Roma sette mesi prima che andasse in pensione”.

Dopo la richiesta di rinvio a giudizio, alla udienza preliminare del 15 gennaio 1997 , il Gip Eduardo Landi decide di non decidere. E invia la decisione alla udienza del 28 febbraio 1997. Perché? Semplice! La Geremia, preoccupata dalle minacce che potevano travolgere l'anziana madre sola in casa , decide di chiedere il trasferimento in Sardegna, ma vorrebbe concludere l'inchiesta sulla Cirio: ma non le sarà consentito. La motivazione della sentenza assolutoria di Prodi, anziché essere depositata nel termine di legge del 23 gennaio 1998, giunge sul tavolo della Geremia il 9 febbraio 1998, due giorni dopo che la stessa Geremia era stata trasferita alla Procura Generale di Cagliari. E così ella non aveva potuto presentare impugnazione- così mi disse- contro l'assoluzione di Prodi.

E sullo scandalo calò un silenzio tombale, rotto solo dalla mia denunzia nel libro Corruzione ad Alta Velocità.

La storia si ripete...

Oggi si ripropongono scenari simili, e la giustizia e la verità rischiano un'ennesima sconfitta! O c'é speranza che giustizia sia fatta e che il CSM e la Procura Generale della Cassazione ristabiliscano la legalità violata?

Tetto Manager, vertice Unione

Tetto Manager, vertice Unione

Finocchiaro 'troveremo soluzione, Salvi 'cose mai viste'

(ANSA) - ROMA, 13 NOV - Riunione straordinaria della maggioranza al Senato per cercare un'intesa sulla norma che fissa un tetto agli stipendi dei manager pubblici. La decisione dopo lo scontro con l'Udeur che ha annunciato il voto contrario. ''Una soluzione ci sara', la troveremo'', assicura la capogruppo dell'Ulivo Anna Finocchiaro. Sconcertato Cesare Salvi: ''Non ho mai visto una cosa simile: un ministro che si alza per attaccare un testo uscito dalla commissione Bilancio. Altro che repubblica delle banane...''.

A questo punto Mastella se ne deve andare. Ma chi è questo signore che si aggira nel Palazzo? Un unto del signore !!!?

Avrei capito semmai una discussione sull’entità del compenso ai manager pubblici (comunque se proprio si vuol fare una cosa utile basta legare lo stipendio a risultati positivi e ci ritroveremmo manager pubblici “agratis” come si suol dire).

No così non si può andare avanti. Che si vada ad un nuovo governo magari tecnico, non importa, o che si vada ahime! a nuove elezioni subito dopo aver fatto una legge elettorale ma non se ne può più. Questo signore che risponde al nome di Mastella Clemente Ministro di Grazia e Giustizia dello Stato Italiano ripeto dello Stato italiano che idea ha del suo ruolo e quale senso ha dello Stato? Ma lo sa che in questo nostro “bel paese” i cosidetti Manager pubblici hanno ricevuto “prebende” che nessun altro paese in Europa si sognerebbe mai di elargire? Certo non è lui responsabile di ciò ma come può rifiutarsi di prendere atto di una tal “ingiustizia” perpetrata per anni?


11/11/07

Ma Perugia non è l'inferno

Leggo e riporto dal Corriere della Sera ( http://www.polare.com/news/click/-0,3644200/ ) uno splendido articolo di Beppe Severgnini nel quale l'autore fà riferimento al rischio di "cognizzazione di Perugia...."

Nel mio precedente post avevo fatto altro tipo di riflessione.

Quì mi pare che Severgnini colga in pieno un aspetto della spettacolarizzazione mediatica e dei rischi che ne possono derivare e propongo la lettura del suo articolo.

Su una espressione da lui usata "l'episodio statisticamente irrilevante..." certamente attinente per quello che di seguito si dice ho comunque qualche riserva per come potrebbe essere mal interpretata dal lettore.

la polemica

Ma Perugia non è l'inferno

La «cognizzazione» del luogo della tragedia. E anche Erasmus assume tinte fosche

Perugia, improvvisamente, appare una città perduta. Una delle "P cities" di cui andiamo fieri nel mondo - le altre sono Padova, Pavia, Parma, Piacenza, Pisa, Pistoia - diventa, di colpo, infernale. Sette secoli di università (1308) dimenticati di colpo: demoni travestiti da studenti si aggirano tra i saliscendi del centro, in cerca di trasgressioni e vittime. E' la "cognizzazione" di Perugia: un luogo fisico, a causa di una tragedia, diventa la gabbia dei nostri incubi. Il capoluogo umbro come Cogne, Novi Ligure, Erba, Garlasco. Meccanismo comprensibile, ma irrazionale: l'episodio, statisticamente irrilevante, diventa un simbolo potente. Non accade solo a Perugia. Anche Oxford, anni fa, quand'è morta una studentessa per droga, ha smesso d'essere una delle migliori università del mondo, ed è diventata una palestra di viziosi. Una Sodoma accademica, l'incubo del secolo per la settimana in corso: poi è passata. Un delitto feroce funziona come un riflettore puntato negli occhi: la luce è molta, ma si vede poco cosa accade intorno. E intorno, in una città come Perugia, accadono cose normali. I ragazzi, italiani e stranieri, si ritrovano vicino alla Fontana Maggiore, e si cercano al cellulare. La trasgressione più comune è finire a letto con una compagna di corso: cosa che avviene da qualche secolo, quando le orbite dei ventenni s'incrociano. Questa non è una difesa d'ufficio di Perugia, anche se potrebbe averne bisogno. E' un tentativo di ragionare sulla rappresentazione del mondo, in questi tempi di ansie disinformate, colorate dalla televisione, amplificate dai blog. Lo studente medio nella città universitaria media non è un pervertito. Corre meno rischi, rispetto a una grande città come Milano o Roma: se non altro, dovunque vada, può tornare a casa a piedi la sera. Ma cosa può pensare una famiglia la cui figlia diciottenne è partita per studiare a Perugia (Padova, Pavia, Parma, Piacenza, Pisa)? Penserà che la espone a rischi immensi, e probabilmente sarà tentata di tenerla vicina, rimandando il distacco, indispensabile rito di passaggio. E' vero: s'è alzata, anche in Italia, la soglia del divertimento. La sbornia rovinosa, che abbiamo sempre considerata stupida, sta diventando normale. Il sesso, per alcuni, non è più un'esplorazione emozionata, ma un eccesso da raccontare (a voce, col telefono, su internet). Le notti in bianco, fino a qualche anno un'eccezione magica, sono diventata un'abitudine sfiancante, da riempire come càpita. Tutto vero, purtroppo. Ma trent'anni fa la vita universitaria era più pericolosa: l'arroganza incosciente, spesso sfociata nel terrorismo, era endemica (lo so, c'ero). Gli assassini di Meredith sono poveri disgraziati convinti - per via chimica o isterica - d'essere superuomini. Rappresentano - sono convinto, dopo tanti viaggi, molti incontri e un po' d'insegnamento - una minoranza disastrosa. Non la norma. Ma la "cognizzazione" di Perugia spinge in direzione opposta. Le notizie s'infilano dentro una prisma che le deforma. "Raffaele Sollecito ha fatto l'Erasmus in Germania...": e anche l'Erasmus - il più saggio investimento europeo degli ultimi vent'anni, i soldi spesi meglio nella storia della UE - assume una tinta fosca. Quando la giovane Chiara - milanese o napoletana, triestina o genovese - dirà allo zio "...vado in Erasmus" , lui la guarderà ansioso. Dovrebbe invece darle un premio, qualche soldo e una pacca sulle spalle. Qualcosa del genere sta accadendo anche a Firenze, dove vivono, studiano e si divertono cinquemila studenti americani. Molti bevono troppo e male, è vero. Ma invece di sfruttare la ricchezza rappresentata da questi ragazzi - iscritti alle migliore università, si porteranno negli USA memorie e legami italiani - la loro presenza viene ignorata, nel resto d'Italia. Fino allo stupro, alla violenza, alla pessima notizia. Allora, di colpo, vediamo, sappiamo, giudichiamo tutto. Torno a Perugia mercoledì: un vecchio invito dell'Università per Stranieri, che intendo onorare. Cercherò di ricordare una frase di Henry James, che qualcuno ha saggiamente incollato su Wikipedia: " Forse farò un favore al lettore dicendogli come dovrà trascorrere una settimana a Perugia. La sua prima cura sarà di non aver fretta, di camminare dappertutto molto lentamente e senza meta e di osservare tutto quello che i suoi occhi incontreranno". Osservare, prima di giudicare. Un delitto è un episodio orrendo e sbagliato: non la prova di un destino cambiato.

10/11/07

Uno sfogo sugli ultimi fatti di sangue

C’è ormai una strana situazione. Ci sono omicidi che sono omicidi: vedi il caso del Mailat di turno…. un probabile disgraziato qualunque che, se pure non ha alcun diritto di usare violenza, e però si potrebbe pur comprendere nel gesto compiuto, invece appare come il mostro quello che dobbiamo scacciare via…..e dall’altra parte c’è invece un omicidio davvero assurdo compiuto tra gente che non ha alcun bisogno di usare violenza contro qualcuno che non ha il problema dell’alloggio o del cibo e della sopravvivenza…..Eppure questo secondo omicidio pare quasi non essersi consumato….se ne parla a bassa voce come se non fosse accaduta una cosa drammatica anzi ancor più drammatica di quella occorsa alla povera signora romana…..Una ragazzina, forse per un qualche stupido prurito sessuale o per uno strano gioco…., è stata uccisa, dico è stata uccisa ed è stata uccisa con un’arma vera. Il disgraziato che ha ucciso la signora romana non ha usato un’arma ma semmai una occasionale arma ….un sasso o forse le mani con le quali ha percosso la vittima…. mentre qui si è usata un’arma vera e propria capace di uccidere……ma questo conta poco. Da una parte c’è un disgraziato qualunque brutto, sporco e cattivo…..mentre dall’altra ci sono un’americana….l’amico italiano di buona famiglia e sì…un uomo di colore ma molto ben integrato…..che non posono essere cattivi. Da una parte un orrendo crimine e dall’altro un “giallo” che ci appassionerà ma comunque un “giallo” perché nei gialli i morti non contano; la vittima è solo una variabile per comprendere la complessità del fatto… In questa società dell’apparire anche questo conta e mentre l’uno appare un efferato omicidio l’altro non si capisce bene cosa sia come se volessimo tutti difenderci da qualcosa che può colpire tutti….che potrebbe riguardarci anche da vicino. E allora dalli al disgraziato di turno (certamente colpevole, se sarà dimostrato tale, ma già da subito colpevole di un efferato delitto) e ….stiamo attenti a cercare di capire cosa possa aver spinto ….questi giovani……oltre il consentito….ma intanto per il bene pubblico liberiamoci di tutti i “disgraziati” che potrebbero, come il povero Mailat,….macchiarsi di un altro atroce delitto… Dio come stiamo cadendo in basso. Preferiamo preoccuparci del disgraziato qualunque e non dei “bravi ragazzi” e quanti ce ne sono di bravi ragazzi…..Ma và così e allora dalli al “Rom” allo “zingaro” e chiudiamo le frontiere ..e…cacciamoli tutti e verifichiamo se quelli che vengono nel nostro paese hanno la capacità di sostentamento come se fossero turisti nel bel paese…..e cacciamoli tutti questi “zingari”….perchè così i cittadini si sentiranno finalmente protetti. E i mostri che sono con noi o che noi stessi potremmo essere? No di questi non parliamone adesso….semmai… dopo…… si vedrà.!!!

06/11/07

In memoria dello splendido giornalista Enzo Biagi

Dal quotidiano “La Repubblica (http://www.repubblica.it/2007/11/sezioni/cronaca/biagi-grave/editto-bulgaro/editto-bulgaro.html) :

Biagi, con Luttazzi e Santoro, nel 2002 venne accusato dal Cavaliere di "uso criminoso" della tv per una intervista a Benigni. Nel 2007 il ritorno

L'editto Bulgaro, le scuse di Berlusconi
"Rifarei tutto quello che ho fatto"

Rifiutò di partecipare a Rockpolitik nel 2005, dove lo aveva invitato Cementano per non tornare, scriveva, su Rai uno, la rete ancora diretta da chi lo aveva cacciato
di GIOVANNI GAGLIARDI

ROMA - "Berlusconi ha detto da Bucarest che ho fatto un 'uso criminoso' della tv. Dalla Rai dopo 41 anni di servizio mi hanno mandato una disdetta con la ricevuta di ritorno. Bene, rifarei tutto quello che ho fatto. Sono sempre stato dalla parte di quelli che non vincono". Così parlava del suo 'esilio' dalla televisione Enzo Biagi in una intervista al Corriere nell'agosto del 2004.
Era il 18 aprile del 2002 quando il neo presidente del consiglio, Silvio Berlusconi, da Sofia, dopo una durissima campagna elettorale, puntò il dito contro Biagi, Luttazzi e Santoro, per quello che passerà alla storia come "l'editto bulgaro". "Vorrei sapere quale reato ho commesso: stupro, assassinio, rapina?" chiedeva Biagi a caldo commentando in quel giorno le affermazioni di Silvio Berlusconi. In quel momento il giornalista firmava 'Il fatto', in onda dal 1995 su Raiuno subito dopo il Tg1 con grandi risultati di ascolto. Quella sera, in diretta, Biagi disse: ''Questa potrebbe essere l'ultima puntata del Fatto dopo 814 trasmissioni, ma non tocca a lei Berlusconi licenziarmi''.
'Il Fatto' concluderà la sua storia il 31 maggio dello stesso anno. A scatenare le ire di Berlusconi fu la puntata in cui Biagi, il 10 aprile del 2001, in piena campagna elettorale, intervistava Roberto Benigni e il comico non risparmiava battute all'allora leader dell'opposizione. "Il contratto di Berlusconi con gli italiani? Ormai è un cult. Quella cassetta lì l'ho registrata proprio. L'ho messa tra Totò e Peppino, e Walter Chiari e Sarchiapone". O ancora: "Non voglio parlare di politica, sono qui per parlare di Berlusconi". E il commento di Berlusconi il giorno dopo fu a lettere di fuoco: ''Ieri sera è stata una cosa terribile''.
Fu una ferita profonda. "Cara Lucia penso che la mia vita si stata felice", ha scritto nel libro dedicato alla moglie Lettera d'amore a una ragazza di una volta, "ma il conto è arrivato tutto d'un colpo. Tu mi hai lasciato, Anna (la figlia ndr) è morta all'improvviso, sono stato calunniato e offeso nel mio lavoro".

Da allora il giornalista non è comparso in Rai che pochissime volte. La prima a Che tempo che fa, il 22 maggio del 2005. In diretta, con gli occhi lucidi, disse: ''Rifarei tutto come prima''. Poi il 21 ottobre come ospite a Primo piano per raccontarsi, con oltre due milioni di ascolto. Rifiutò di partecipare a Rockpolitik, dove lo aveva invitato Celentano per non tornare, scriveva, su Raiuno, la rete ancora diretta da chi lo aveva cacciato. Al suo posto una sedia vuota. Il 13 ottobre 2006, dopo quattro anni di assenza, il ritorno sull'ammiraglia, intervistato al Tg1 da David Sassoli. Poi il 10 dicembre 2006, ancora una volta da Fazio, l'annuncio del ritorno in tv con un programma dedicato agli italiani.
Da vecchio partigiano, Enzo Biagi scelse la Resistenza come tema della prima puntata di RT - Rotocalco televisivo, il programma - realizzato in coproduzione con il Tg3 - che dal 22 aprile su Raitre lo riportò sugli schermi della tv pubblica. "Buonasera, scusate se sono un po' commosso e, magari, si vede - disse aprendo la puntata -. C'è stato qualche inconveniente tecnico e l'intervallo è durato cinque anni".
E oltre alla soddisfazione del ritorno in tv, Biagi ebbe anche quello della marcia indietro, seppur parziale, di Berlusconi. "Ho assistito alla prima delle due puntate e l'ho trovata veramente avvincente, quindi complimenti al dottor Biagi per questa nuova trasmissione", - disse il Cavaliere dai microfoni di "Radio anch' io", negando, però, di aver mai chiesto la chiusura di "Sciuscià", "Il fatto" e "Satyricon". E tuttavia, per la prima volta, Berlusconi ammise un errore: "Forse ho calcato la mano quando dissi che Biagi e gli altri facevano un uso criminoso della tv pubblica".
E, come sempre, la risposta del giornalista fu di grande classe. Poche righe per ringraziare "tutti quelli che hanno apprezzato il nostro lavoro e in particolare Silvio Berlusconi per il giudizio lusinghiero espresso su RT rotocalco televisivo".

(6 novembre 2007)

05/11/07

Anche in Italia c’è il rischio di razzismo!!

Non capisco l’acidità dell’articolo di Vasile sull’Unità nei confronti della collega Spinelli ( …..da un attico di una lontana città del Nord Europa, Barbara Spinelli… ….rudezza per rudezza, vogliamo anche ricordare che una sinistra astratta e salottiera non comprese, e a volte avversò…..). Se pure ella ha usato qualche “parola di troppo” in riferimento ad un articolo scritto dall’Unità sulla tragica morte romana dei giorni scorsi (le critiche che la Spinelli rivolge al Giornale mi paiono più che vere critiche raccomandazioni), comunque subito dopo fà una attenta e compiuta analisi sul popolo Rom (perseguitato da più di un millennio), sul comportamento xenofobo e gli obblighi imposti dalla Cee e disattesi dallo stato Rumeno che personalmente condivido.

Rischi di una nuova ondata xenofoba interessano purtroppo anche il nostro paese e su questo in più articoli proprio l’Unità è tornata nei giorni successivi.

Non è possibile che seri professionisti “democratici” si scontrarsi anche su questo. Simili atteggiamenti non aiutano certo il lettore a comprendere e in simili casi l’obiettivo unico deve essere che i lettori comprendano e comprendano bene al di là dei “pruriti”.

Riporto di seguito i due articoli:

“Da La Stampa ( http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/hrubrica.asp?ID_blog=40 ) del 04/11/07 L'Europa e il tabù dei Rom di Barbara Spinelli

La risposta delle autorità pubbliche al massacro di Giovanna Reggiani è stata ferma, netta: non c’è spazio in Italia per chi vive derubando, violando, uccidendo. C’è qualcosa di sacro nel bisogno di sicurezza sempre più acutamente sentito dagli italiani, così come c’è qualcosa di sacro nell’ospitalità, nell’apertura al diverso, nella circolazione libera dentro l’Unione. Quest’antinomia permane ma comincia a esser vissuta come un ostacolo, anziché come una convivenza di norme contrastanti (di nòmos) che vivifica l’Europa pur essendo ardua. È un’antinomia che educa a vivere con due imperativi: l’apertura delle porte ma anche la loro chiusura se necessario. Molti chiedono negli ultimi giorni di «interrompere i flussi migratori»: la collera suscitata dal crimine di Tor di Quinto ha rotto un argine, anche nel nuovo Partito democratico, e d’un tratto sembra che solo un imperativo conti: le porte chiuse. Su un quotidiano di sinistra, l’Unità, sono apparse parole strane. Si è parlato, a proposito del quartiere del delitto, di «tutta un’umanità brutta sporca e cattiva»; si è parlato di «città italiane che funzionano come miele per le mosche di uno sciame incontrollato che viene dall’Est Europa». L’umanità sporca, lo sciame di mosche: è vero, un tabù cade a sinistra e tanti se ne felicitano, constatando che finalmente il buonismo è stato smesso e che la sinistra non va più alla ricerca dei motivi sociali della delinquenza ma si concentra sulla repressione e le vittime. Gli imperativi dell’apertura s’appannano, la tensione vivificante fra norme diverse svanisce, entriamo in un mondo che promette certezze monolitiche: basta interrompere i flussi, e il male scompare. Spesso il capro espiatorio nasce così, con questa riduzione a uno del molteplice, del complesso. Spesso nascono così i pogrom, come quello scatenato venerdì sera contro i romeni nel quartiere romano di Tor Bella Monaca: dall’Ottocento hanno questo nome, in Europa, le spedizioni punitive contro i diversi. Anche le ideologie nascono così, fantasticando scorciatoie che risolvono tutto subito. Oggi è la destra a sognare utopie simili, e la sinistra riformatrice s’accoda sperando di ricavare guadagni elettorali. La distruzione dei campi rom è parte di quest’ideologia. Un’ideologia irrealistica perché l’immigrazione non sarà fermata e l’Europa ne ha bisogno. La Spagna sembra esserne consapevole e non a caso è diventata il Paese con il più alto numero di immigrati e progetti d’integrazione. La ripresa della natalità iberica è dovuta a questo. Chi parla dell’immigrazione come di male evitabile sbaglia due volte: perché non è evitabile, e perché in sé non è un male. Se non si vuole che sia un male occorre governarlo bene, il che vuol dire: non solo reprimendo, ma reinventando politiche in Italia e nell’Unione. Perché europei sono i dilemmi ed europeo sarà l’inizio della soluzione. Perché il tabù di cui tanto si discute non è quello indicato (buonismo, tolleranza). Il vero tabù, che impedisce con i suoi interdetti di vedere e dire la realtà, è un altro: è la questione Rom ed è l’inerzia con cui la si affronta nel dialogo con l’Est da dove vengono i cosiddetti nomadi. Fuggiti dall’India nell’anno 1000, giunti in Europa nel Trecento, i Rom assieme ai Sinti sono chiamati spregiativamente zingari, parlano una lingua derivata dal sanscrito, in genere sono cristiani (la parola Rom, come Adamo, significa «persona». I più vivono in Romania). Siamo in emergenza, è vero. Ma non è solo emergenza sicurezza. C’è emergenza europea sui diritti dell’uomo e delle minoranze. C’è una doppia inerzia: nelle strategie d’integrazione e nei rapporti tra Stati europei. Quest’emergenza è acuta a Est, da quando è finito il comunismo: in Romania è specialmente vistosa ma la malattia s’estende a Slovacchia, Ungheria, Repubblica ceca, Kosovo. Al concetto unificatore di classe è succeduto dopo l’89 il senso d’appartenenza alle etnie, e vecchie passioni come xenofobia e razzismo, non superate ma addormentate durante il comunismo, sono riapparse: i più invisi sono i Rom - oltre agli ungheresi che non vivono in Ungheria - e il loro migrare a Ovest è intrecciato a questa ostilità dentro i Paesi dell’Est e fra diversi emigrati dell’Est. È quello che i rappresentanti Rom in Europa denunciano ultimamente con forza (sono circa 8 milioni, su 15 nel mondo). La Romania, in particolare, è accusata di attuare un politica sistematica di espulsione di Rom, da quando è entrata nell’Unione all’inizio del 2007. Il ministro dell’Interno, Amato ha evocato a settembre un «vero e proprio esodo di nomadi dalla Romania», e di esodo in effetti si tratta: ma esodo forzato, nell’indifferenza europea. Dicono i rappresentanti Rom che i membri della comunità in Romania son cacciati dagli alloggi, dai lavori, dalle scuole, e per questo preferiscono le topaie italiane. Il ministro Ferrero, responsabile della Solidarietà sociale, dice il vero quando nega che l’esodo sia essenzialmente economico: la Romania non è più così povera, sono xenofobia e razzismo a colpire oggi i Rom. Queste cose andrebbero ricordate a Bucarest, cosa che hanno tentato di fare Amato e Ferrero in un recente incontro con il ministro romeno dell’Interno, David. Ferrero ha cercato lumi presso il Forum europeo dei Rom e tentato di mettere alle strette David. Dall’incontro è nata la convocazione di un tavolo permanente di negoziato: presto si riunirà a Bucarest. Proprio perché è nell’Unione, la Romania deve rispondere di quel che fa con i propri Rom (2 milioni, secondo stime ufficiose). Discutere di queste cose con Bucarest e altri governi dell’Est è urgente. Un patto è stato infatti rotto, che pure era assai chiaro. Ai tempi dei negoziati d’adesione, i candidati si erano impegnati a rispettare i criteri di Copenhagen, che non riguardano solo l’economia ma le «istituzioni capaci di garantire democrazia, primato del diritto, diritti dell’uomo, rispetto delle minoranze e loro protezione». Ingenti fondi son devoluti da anni a tale scopo (il programma europeo Phare, cui si aggiungono finanziamenti della Fondazione Soros, della Banca Mondiale) intesi a frenare la «discriminazione fondata sulla razza e l’origine etnica». È accaduto tuttavia che una volta entrati, numerosi governi dell’Est hanno fatto marcia indietro (il regime Kaczynski in Polonia è stato un esempio). Ed è così che si è riaccesa l’ostilità verso i Rom: questa etnia perseguitata da un millennio e decimata nei campi nazisti. Paragonarli a uno sciame di mosche non è anodino. Significa che l’Italia (per come parla o chiede azioni) comincia ad assomigliare a quegli europei dell’Est che stanno arretrando e riproponendo, ancora una volta nel continente, il dramma Rom. Certo urge controllare meglio i flussi migratori: ma non si può farlo accusando intere etnie (Rom, Romeni, Albanesi) per il delitto di alcuni. Non si può governare alcunché se non si prende distanza dalla strategia di cui Bucarest è oggi sospettata. La caduta dei tabù comporta anche il formarsi di idee completamente false. Con disinvoltura i Rom son descritti come non integrabili, nomadi, dediti al furto. I dati smentiscono queste nozioni. In Italia la comunità Rom è composta in stragrande maggioranza di sedentari, non di nomadi. E tentativi molto validi di integrazione hanno dimostrato che quest’ultima può riuscire. Ci sono iniziative della Chiesa: le ha spiegate sul Corriere don Virginio Colmegna, presidente della Casa della Carità a Milano. E ci sono iniziative pubbliche preziose: a Pisa, Napoli, Venezia. Pisa è esemplare perché i risultati sono eccezionali: nei campi vivevano 700 Rom, dieci-dodici anni fa. Solo due bambini erano scolarizzati. Il Comune si è incaricato di trovar loro lavoro e alloggi, scegliendo un mediatore per negoziare con i vicini. Appena emancipati, i Rom uscivano dal programma d’assistenza e i fondi servivano a integrare altri loro connazionali. Nel frattempo, si spingevano le famiglie a scolarizzare i figli. In dieci anni, 670 Rom su 700 sono stati inseriti, e tutti i bambini vanno a scuola. Certo la comunità in Italia è divisa: alcuni chiedono più campi, mentre i più vogliono superarli proprio perché il nomadismo è meno diffuso di quel che si dice: il 90 per cento dei Rom (140 mila nel 2005, in parte italiani) non sono camminanti bensì - da decenni - sedentari.

Per riuscire in simili operazioni bisogna abbandonare l’utopia, privilegiando fatti ed esperienze. Ambedue confermano che l’integrazione resta indispensabile, che chiuder le porte non basta, che è necessario far luce sui pericoli che corre non solo la sicurezza ma la democrazia. Dice Franz Kafka: «Bisognerà pure che nel campo dei dormienti qualcuno attizzi il fuoco nella notte». Questo invito a far luce sui veri tabù vale per i dormienti dell’Est e per l’Europa. Vale per i Rom (il loro faro non dovrebbe esser la figura della vittima ma la donna Rom che s’è sdraiata sull’asfalto davanti a un autobus per denunciare il Rom assassino di Giovanna Reggiani) e vale per la destra come per la sinistra italiana.

Dall’Unità ( http://www.unita.it/view.asp?IDcontent=70333 ) del 05/11/07 di Vincenzo Vasile

Dove guarda la Spinelli

Da un attico di una lontana città del Nord Europa, Barbara Spinelli su La Stampa accusa l’Unità di avere scritto «parole strane» sul martirio di Giovanna Reggiani. Avere scritto che nella misera baraccopoli dove è maturato il delitto si aggira «tutta un’umanità brutta sporca e cattiva» (citazione di un film di Ettore Scola che negli anni Settanta svelava senza ipocrisie la disperazione e la brutalità delle condizioni di vita in certe baraccopoli romane); avere scritto di «città italiane che funzionano come miele per le mosche di uno sciame incontrollato che viene dall’Est Europa» (immagine che ci sembrava persino tenue rispetto alla formidabile e «incontrollata» pressione di immigrati «comunitari» e anche di delinquenza che l’ingresso della Romania nella Ue da un anno a questa parte ha determinato).Come i nostri lettori ricordano, il giorno dell’assassinio di Giovanna Reggiani abbiamo voluto porre con forza la questione di misure urgenti ed efficaci per dare risposta alla stringente domanda di sicurezza della gente comune, per scongiurare il pericolo che essa venga incanalata e cavalcata da xenofobi e irresponsabili: isolare e cacciare via i violenti, per tutelare sia la popolazione in allarme, sia la parte operosa e onesta delle comunità straniere. Un modo, l’unico modo per sedare i focolai di odio e impedire che divampino. Così estrapolate, invece, le nostre due frasi conducono Spinelli a una conclusione sbalorditiva: esse rivelerebbero l’intenzione della sinistra di accodarsi alla destra razzista «sperando di ricavare guadagni elettorali», e sarebbero addirittura criminogene: «Spesso il capro espiatorio nasce così (…) spesso nascono così i pogrom, come quello scatenato venerdì sera contro i romeni di Tor Bella Monaca». Le aggressioni verbali che intanto la destra ha lanciato in questi giorni contro il governo centrale e l’amministrazione comunale di Roma, che si sono mossi sulla linea che questo giornale ha cercato di stimolare, forse basterebbero per rispondere a un processo alle intenzioni che si basa su una banalità che delude gli attenti e affezionati lettori di Barbara Spinelli: avremmo rotto, scrive, il nostro tabù «buonista». Si potrebbe aggiungere che abbiamo semplicemente scritto le cose come stanno. Attenendoci a un principio di realtà che consideriamo essenziale sia per la buona politica, sia per il buon giornalismo. E cioè, per esempio, abbiamo scritto, e ripetiamo che il particolare «privilegio» di impunità di cui godono piccoli, medi e grandi racket importati e fioriti nella disperazione delle favelas italiane ha prodotto una evidente e chiara statistica: viene proprio da quei «nuovi europei» il 75 per cento dei reati della cosiddetta microcriminalità nella capitale (e si parla solo di quelli denunciati e solo dei colpevoli identificati!). Ma, rudezza per rudezza, vogliamo anche ricordare che una sinistra astratta e salottiera non comprese, e a volte avversò, negli anni passati la battaglia che, al fianco di magistrati e poliziotti valorosi, una sinistra più concreta e un giornale poco «buonista» come l’Unità hanno condotto contro le grandi forme di criminalità organizzata. Dagli uomini e dalle donne di acuta cultura ci aspetteremmo che al cospetto dell’emergenza della violenza quotidiana non chiudessero gli occhi e non perseguissero lo stesso, identico errore.

Pubblicato il: 05.11.07”

31/10/07

sull'allarme quotidiano

Riprendo dal Blog “voglio scendere ( http://www.voglioscendere.ilcannocchiale.it/ ):

42 mila buone ragioni per non toccare la Gozzini


da Vanity Fair dell'1 novembre 2007

Non c’è niente di più allarmante dell’allarme che tutti i santi giorni fischia sui giornali e sulle Tv. Ci sentiamo assediati dagli ubriachi al volante, ignorando che sono comparsi dal nulla non per un maleficio alcolico, ma perché, nell’ultimo anno, si sono moltiplicati (da quasi zero a mille) i controlli sui guidatori coinvolti nella ordinaria sequenza di incidenti con morti e feriti.

Ci sentiamo assediati dai clandestini che assaltano le nostre villette isolate, dai detenuti liberati dall’indulto o scarcerati dalla legge Gozzini. Ignorando che tutti gli indicatori del crimine in Italia, dal 1991 ad appena ieri, sono scesi in modo costante. Gli omicidi, per esempio, dal tetto dei 2.000 morti ammazzati di quindici anni fa sono diminuiti fino ai 621 morti dell’anno scorso. Negli ultimi dodici mesi sono aumentate (di poco) le rapine e sono diminuiti (di poco) i furti.

In quanto alla Gozzini, la legge che dal 1986 consente il lavoro esterno e la semilibertà ai detenuti che con la buona condotta hanno scontato almeno metà della pena, annovera dati eccellenti. Ne hanno usufruito 42 mila detenuti. L’hanno tradita commettendo un nuovo reato in 132, una quota irrisoria, lo 0,16 per cento.

Senza contare l’effetto profondo che la legge Gozzini ha riverberato nella vita dei detenuti: non un’altra serratura che chiude i cancelli, ma una finestra che si apre alla speranza e a un obiettivo da conseguire, con la lentezza del giorno per giorno. Certo poi accade che esca il pluriomicida Angelo Izzo (anno 2005), che dopo 29 anni di carcere torna a uccidere. O l’ex brigatista Cristoforo Piancone (anno 2007), che dopo 25 anni di carcere tenta una rapina a Pisa.

Due casi. Due errori. Due cattive ragioni, contro quarantaduemila buone.

OK notizie